Il tramonto delle grandi narrazioni politiche e religiose e l'avvento delle forze della globalizzazione portano ad interrogarsi sulle sorti della società, dei legami sociali e della cultura come collante sociale. Che la società di massa sia ormai tramontata è chiaro. La struttura sociale attualmente appare più come un mosaico di diverse esperienze e subculture dalla forma reticolare in cui sono i singoli a tirare i fili. La spinta tecnologica alla digitalizzazione genera un cambio di paradigma da un mondo dominato dalla scarsità da allocare in maniera efficiente ad un'abbondanza da filtrare in maniera efficace. Dalle hit alle nicchie, dalla testa alla "lunga coda" come dice Anderson. La postmodernità vuol dire anche frammentazione, proliferazione delle subculture, primato dell'individuo e liquidità delle relazioni sociali. In questa situazione, ci chiediamo, che cos'è che continua a tenerci assieme? Se poi si considera che, nel processo di negoziazione del senso che costituisce ogni atto comunicativo, l'unicum di ogni lettore-spettatore fornisce un loop positivo che rinforza la frammentazione, il rischio è addirittura che si finisca ad abbracciare tesi sul solipsismo e l'incomunicabilità di fondo. Il problema però riemerge quando si considera il ruolo che il broadcasting ha avuto nella formazione della coscienza collettiva: il rischio prospettato da alcuni è che con il passaggio al narrowcasting ed ai personal media si perdano legami sociali e la sfera pubblica collassi in un ammasso di agende private.
Questo scenario ci sembra "apocalittico", vediamo perché.
Prima obiezione: un nocciolo duro di conoscenza condivisa resterà sempre, se non altro dovuta al processo di inculturazione ad opera delle istituzioni sociali e, come dimostrano sempre più studi sull'infanzia e l'adolescenza, dal gruppo di pari. Su questa parte in comune si innestano poi un superstrato di origine subculturale ed una periferia di esperienza individuale. Hofstede parla di livelli di mental programming (il suo studio era per l'IBM), ma la struttura è simile alle rappresentazioni sociali di Moscovici.
L'osservazione della natura relazionale dell'agire umano, ci porta alla seconda obiezione: uomo e donna (la difficoltà di comunicazione tra sessi qua non c'entra!) restano fondamentalmente degli animali sociali. A cambiare non è la sostanza, ma la forma. Nascono cioè forme di socialità inedite, dal micro-locale al global networing basato sulla comunanza despazializzata di Thompson. Oggi come allora, infatti, l'aggregazione avviene attorno a spazi geografici e di significato (ideologici, culturali). Non più il cortile, sempre meno la piazza; ma il parco commerciale, il luoghi del consumo e del tempo libero (con l'impennata dei luoghi del wellness). I significati condivisi, invece, si caratterizzano per saperi tematici ed esperienze condivise a livello globale. Ad essere oggetto di negoziazione è il senso stesso della società, in prima linea l'idea di Stato-Nazione.
Le nuove tecnologie e la customizzazione di prodotti, servizi e messaggi, perciò, non dividono, ma uniscono. Il word of mouse è la natura della rete, il social networking è la trama del nuovo tessuto sociale. Ed è proprio la frammentazione delle esperienze che crea il bisogno di condividerle. L'errore da cui guardarsi è il considerare i social media come un sostituto delle relazioni personali. Ne sono in realtà un complemento. E, soprattutto, la socialità viene gestita in maniera diversa da ognuno di noi. Maven, Connectors e Salesman continueranno ad esistere e a diffondere le idee oltre il Tipping Point infettando il resto della società, ma lo faranno aiutati dalle potenzialità dei social media.
Moriremo di solitudine davanti a uno schermo? Non direi proprio. A parte i casi di psicopatologia come quello di Asai Eri nella Tokio After Dark di Murakami, il bisogno di comunicazione rimarrà sempre.