Tuesday, October 27, 2009

VOW / 13

Il paradosso della scelta.

Monday, October 26, 2009

La strategia aziendale nel network

L’approccio tradizionale alla strategia aziendale ha come unità di analisi la singola impresa, intesa in senso microeconomico come sistema di produzione. Un simile focus non abbraccia la complessità ambientale in cui le organizzazioni normalmente agiscono e fallisce dal punto di vista positivo nel descrivere come effettivamente si muovono. Snehota e Hakansson (1989) ricordano in un contributo seminale, da cui traiamo ispirazione per questo post, che “no business is an island”. Le imprese sono immerse in una rete di relazioni con fornitori, distributori e numerosi altri attori. La maturità di molti mercati nei paesi sviluppati significa consumatori finali più disincantati, con meno incertezze, più sofisticati. Il ciclo di vita di molti prodotti e di conseguenza delle tecnologie che incorporano viene compresso, provocando una pressione temporale sulle imprese. Inoltre, le offerte diventano sempre più complesse e ricche di tecnologia. Poi, c’è il trend della globalizzazione che aggiunge ulteriore pressione competitiva, ma anche molte opportunità. Le imprese, quindi, "esplodono". Iniziano a fare outsourcing ed offshoring perché non è possibile controllare tutte le tecnologie necessarie per un creare un’offerta di valore. Queste considerazioni valgono per i mercati B2C e B2B. Nel contesto descritto, quindi un’impresa è caratterizzata dal portafoglio di relazioni che detiene. Ed in ogni relazione, i risultati dipendono dal comportamento di entrambe le parti. Tutto è path dependent, frutto della cooperazione o del conflitto, delle reciproche posizioni, dei commitments. Fornitori ed imprese clienti si stendono una serie di fili: i legami tra le persone, l’interdipendenza tra le risorse ed i collegamenti tra le attività. Le offerte, nel marketing B2B, presentano infatti un elevato grado di customizzazione, ma in una relazione gli adattamenti sono giocoforza reciproci. Hakansson e Snehota descrivono i fardelli delle relazioni di business: stickiness, perdita di controllo, incertezza, elevato impiego di energie (costi e tempo), esclusività. Adottando quest’ottica olistica, bisogna quindi rivedere il concetto di strategia aziendale. Da una parte, gli adattamenti dell’offerta, ad esempio, rischiano di portare ad uno strategic drift, cioè di allontanare l’impresa dalla strategia dichiarata. Dall’altra, i legami e le interdipendenze con altre imprese, forgiano la struttura, le risorse, le tecnologie, i processi e quindi la strategia aziendale. Richiamando la distinzione operata da Mitzberg (1987) tra emergent e deliberate strategy, quindi è possibile concludere come la strategia aziendale realizzata sia in realtà il frutto della posizione dell’impresa all’interno di un network. Le relazioni con altri attori influiscono sull'efficienza e sui confini organizzativi. Definire la strategia significa quindi gestire il portafoglio di relazioni esistenti, senza cadere nell’errore di credere che sia possibile organizzarsi meccanicamente per il network "management". Le relazioni diadiche, infatti, non sono per definizione “gestibili” da nessuna delle due parti singolarmente, ma sono l’esito del comportamento congiunto, del compromesso, di adattamenti reciproci. Ancora meno si può pensare di influire nel breve periodo sulla struttura della rete di imprese. Chi si deve occupare quindi di definire la strategia? Il middle management, che ha preso e prende le decisioni quotidiane che costituiscono la strategia realizzata, deve assumere un ruolo di primo piano nella pianificazione: senza di loro non si va da nessuna parte. Al top management, invece, spetta il compito di provvedere le risorse, la struttura, il clima e gli incentivi necessari per la sua realizzazione, nei limiti imposti dal contesto di network.

Tuesday, October 20, 2009

Dal salone della CSR

Case studies e workshop interessanti per molti versi. Per un riassunto completo delle iniziative vedi il sito. Ciò che emerge dall’ultima edizione del salone Dal dire al Fare, è soprattutto l’immagine dello stato della CSR in Italia. Abbiamo avuto l’impressione che il dibattito sulla CSR in Italia sia ancora ad uno stato embrionale. L’impresa è al centro della scena e manca una visione d’insieme sulle value networks, sul ruolo dei governi e del no profit nella CSR, sui practitioners. I significati della responsabilità d’impresa sono piuttosto naif, dobbiamo ancora giustificarne la presenza e l’importanza strategica, ed in molti interventi si è sentita ancora la necessità di definirla.

C’è ancora molto da fare, insomma. Incontri di questo tipo sono sicuramente positivi, ma bisogna iniziare ad alzare un po’ l’asticella.

Thursday, October 15, 2009

Coming soon

Tra tesi, esami, lezioni, groupwork e stage vari abbiamo bisogno di una breve pausa per il blog. Dateci ancora qualche giorno e poi soddisferemo le vostre aspettative con nuovi interventi. Stiamo lavorando a:
  • un resoconto del salone della CSR "Dal dire al fare",
  • una rassegna di materiali sulla CSR estratti dalla letteratura internazionale (saranno decine di articoli schedati con un format unico di facile consultazione),
  • un post sulle network distributions ed il channel marketing,
  • un modello di responsible brand management,
  • analisi di alcuni CSR reports,
  • delle interviste con CSR practitioners.
Come vedete, c'è tanta carne al fuoco.
A presto!

Tuesday, October 6, 2009

VOW / 12

Iniziamo una serie di post che ospiterà diverse voci che si inseriscono nel dibattito sulla corporate social responsibility con un video. Il trailer dell'interessante documentario "The corporation", che porta il punto di vista di chi fa risalire alla natura stessa di persona giuridica delle corporations l'origine del problema. Il "mostro" creato a colpi di incorporations sentenze si sottrae al gioco del controllo democratico e in quanto "externalizing machine" ha un che di virale. In quest'ottica, quindi, non esiste CSR, in quanto è la forma stessa della corporation ad essere irresponsabile. Dichiarare che la proprietà è una persona, è infatti anti-democratico quanto dichiarare che la persona possa essere una proprietà, facendo cioè apologia della schiavitù. Per approfondire: Ritz, "Can corporate personhood be socially responsible?", in May, Cheney, Roper, The debate over Corporate Social Responsibility, Oxford University Press, NY, 2007.

Thursday, October 1, 2009

Personificazione, eroismo e mitologia del potere.

Ci sono persone che più di altre catalizzano l’attenzione su di sé, vuoi per la loro personalità, vuoi per il ruolo che ricoprono ed il potere che detengono. CEO, presidenti, premier diventano spesso la faccia delle organizzazioni e dei territori che amministrano, il loro corpo ne diventa metafora in una maniera che echeggia il religioso. Il potere viene personificato, il verbo si fa carne. E questo avviene anche all’interno di meccanismi democratici o comunque dove esistono squadre di governo che grazie all’azione congiunta portano avanti la baracca. È il caso della direzione di molte aziende, ma anche del presidente degli Stati Uniti. Com’è possibile? E che effetti ha la personificazione, la creazione di eroi e miti?
Innanzi tutto bisogna indagare la struttura narrativa che spesso ricorre nel nostro pensiero. Le storie sono il modo in cui leggiamo e cataloghiamo ciò che accade nel mondo. Condensare la conoscenza in un susseguirsi temporale di azioni, portate avanti da personaggi, in una certa scena, con un determinato scopo e grazie a certi strumenti, si è rivelata una modalità di estrema comodità euristica. Questa è la struttura pentadica delle storie di cui parla Burke. Ci piace raccontarcela, insomma. E raccontiamo storie su tutto, anche su noi stessi e sugli altri. Le storie sono una parte fondamentale dei meccanismi identitari che portano all’affermazione del sé. Soffermiamoci sui personaggi, quindi. Senza personaggi la storia non esiste. Ed è proprio nella forma dell’eroe che la storia assume la sua forma più potente ed accattivante. Ognuno si costruisce il proprio pantheon. Queste osservazioni sono alla base della narrativizzazione delle notizie che il giornalismo adotta per catturare l’attenzione dei lettori. E sono la stampa, e soprattutto la televisione, a raccontare e a personificare, a creare miti ed eroi e a portare lo sguardo sul corpo del leader. Nella società dello spettacolo il divismo è una struttura centrale e la personificazione viene accentuata. Il risvolto è che identificazione, ammirazione e voyeurismo si intrecciano. Quando la persona diventa merce, come in una vetrina, il confine tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, tra persona e organizzazione, si fa trasparente. Quando un capo di stato parla ed agisce, lo fa a nome della nazione; parla ed agisce in conto dell’azienda il CEO. Lo sa bene il manager inglese Ratner, che ha distrutto l’impero dei gioielli che aveva ereditato con una battuta: “How can you make jewels that cost so little?” - “Well, because it’s shit!”. Tutto in fumo. Lo sanno bene, o dovrebbero saperlo, i personaggi politici. Gli esempi di personificazione e di mitologia sono moltissimi, alcuni li abbiamo già fatti. Berlusconi, il suo opuscolo “una storia italiana” e le cronache di oggi; Cacciari è Venezia come Formigoni è Regione Lombardia (la definizione stessa di “governatore” è invenzione giornalistica); Steve Jobs, il pirata di Silicon Valley, il viaggio in India e la malattia ora (auguri Steve!); Anita Roddick, l’attivismo giovanile e The Body Shop, poi passata a L’Oréal; Olivetti, la fabbrica di Ivrea e l’impegno sociale; Prodi che è stato il simbolo di una squadra di governo molto eterogenea e si è lasciato raccontare da lasciare l’amaro in bocca; Obama e Sarkozy… Ci sono esempi positivi e negativi. Esempi di chi si racconta bene, e di chi si fa raccontare male, esempi di chi ha qualcosa da raccontare e di chi se lo inventa, di chi ha un “animal spirit” che ammalia e di chi non ha idea di cosa rappresenta in quel momento.
La personificazione, l’eroismo e la mitologia hanno anche una indubbia funzione di rafforzare l’identificazione, la cultura interna, l’affiatamento, il consenso. Se ci si pensa attentamente è proprio quello che manca all’Europa (ed ai partiti europei). Corale, collegiale e plurilinguistica per definizione, è difficile da narrare e non riesce a coinvolgere, è più facilmente additabile come l’origine di leggi non gradite, risulta atomizzata e non compatta e monolitica, quindi debole. Le elezioni europee sono ricondotte ad un sondaggio sulla politica interna, un prova di leadership.
Le dinamiche che abbiamo descritto sono quindi un fattore chiave nella comunicazione oggi. Che lo si voglia o no, spesso si gioca in questa logica, vuoi per il sistema dei media o per l’ambiente competitivo. Il trucco sta nel raccontarsi onestamente e con ethos e nel capire cosa comporta avere gli occhi addosso quando si ricopre un certo ruolo. Avere consapevolezza del potere e delle logiche dei media (valori notizia, sound bites, personificazione, narrativizzazione…). Pensare alle conseguenze di lungo periodo, alla interrelazione e sovrapposizione tra persona fisica e organizzazione, tra rappresentante e rappresentato.