Le istituzioni pubbliche per loro natura sono stakeholders sensibili ai temi cari alla CSR: progresso sociale, sostenibilità ambientale, promozione dei diritti individuali. Resta da capire quale ruolo possano ricoprire in una dinamica che, pur essendo sociale, riguarda prevalentemente le pratiche aziendali. Dunque all'ente pubblico resta la possibilità di giocare un ruolo promotore, al pari e in combinazione con le iniziative delle ONG, verso il mondo privato.
Un primo approccio può essere quello di porre particolare enfasi sul legame tra successo aziendale e adozione delle pratiche di CSR. Lavorare per ribaltare la concezione diffusa secondo la quale l'implementazione di una strategia di responsabilità sociale sia unicamente un sunk cost da sostenere una tantum per dare una lavata alla propria immagine, al pari di altre iniziative filantropiche. Porre invece l'accento sul carattere competitivo della CSR, da considerare come un investimento e non come un costo. Un lavoro dello stesso tipo è stato portato avanti in passato riguardo al total quality management, attualmente presente in maniera rilevante nel mondo delle imprese, se pur in maniera critica e senza la pretesa di essere poi così total.
Se invece consideriamo le imprese come soggetti che, per la natura stessa della loro attività e degli obiettivi che perseguono, si comportano in maniera socialmente irresponsabile, considerazione non ideologica ma argomentata a fondo da studiosi come Gallino e Mitchell, allora l'approccio pubblico non potrà che seguire direzioni differenti. In quest'ottica la moral suasion non basterà, servirà invece il pubblico nella sua veste di regolatore vincolante. L'obiettivo non potrà che essere quello di costruire un frame istituzionale condiviso a livello internazionale, in modo da evitare che le imprese operanti in contesti più virtuosi siano penalizzate nella competizione globale.
Su questo fronte negli ultimi quarant'anni sono state firmate numerose convenzioni da parte di agenzie che fanno riferimento all'ONU (es. ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro). Nonostante lo sforzo considerevole i progressi in tale verso sono lenti e parziali, condizionati dal carattere non strettamente vincolante delle decisioni prese in quelle sedi. Il risultato frequente è quello di gruppi multinazionali che fanno scuola di best practice nelle sedi occidentali, salvo poi praticare il dumping sociale nel sud del mondo dove ha luogo la stragrande maggioranza della produzione.
Come fare dunque? Pur riconoscendo le lacune di una visione della CSR unicamente autoregolamentativa e volontaristica è altrettanto vero che un approccio regolativo mostra altrettanta debolezza nell'incapacità crescente degli Stati nazionali di incidere giuridicamente in un mondo globalizzato dove a farla da padrone sembrano essere i soggetti economici privati, in parallelo con un gap di regole a livello internazionale.
Nonostante ciò il pubblico gode di risorse ingenti rispetto alla più potente delle ONG ed è bene che continui a favorire operazioni di informazione e di moral suasion verso cittadini/consumatori e imprese. Non solo, sarebbe doveroso utilizzare con maggiore decisione il potere (dis)incentivante tramite la leva fiscale, sussidi e sanzioni in modo da favorire la diffusione delle pratiche di CSR. Quando è stato fatto i risultati sono arrivati, ci ritorneremo con casi ed esperienze concrete.
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