Tuesday, June 30, 2009

Il futuro di Emule è verde

Pochi giorni fa la legge sull'energia voluta dal presidente Barack Obama ha ottenuto il si dalla maggioranza della camera dei rappresentanti ed ora passerà al giudizio del senato federale in modo da ottenere l'approvazione dell'intero congresso. Al centro la riduzione dei livelli di C02 tramite un meccanismo di cap and trade che fissa i tetti di emissione ma permette all'imprese l'acquisto e la vendita dei permessi di inquinamento. Per ora un passo importante da parte di un player centrale nella lotta al global warming, problema su cui l'amministrazione Bush ha sempre fatto orecchie da mercante. Meglio di niente, ma non si tratta del passo decisivo verso la energy revolution prospettata dal presidente USA in campagna elettorale. Il tempo di carbone, petrolio, gas naturale e uranio è arrivato al tramonto. Il fatto che questo tramonto durerà diversi decenni e che non c'è accordo unanime su quando scatterà l'ora X (2020? 2030? 2050? Non oltre!) non toglie che la politica a livello nazionale e internazionale ha il dovere di imporre il cambio di passo ora. Trent'anni non sono molti per imprimere e gestire una rivoluzione di questo tipo. I leader politici non sembrano invece avere il coraggio ne la fantasia per parlare di tutto ciò, fatte le recenti eccezioni di Obama e dei verdi francesi guidati da Daniel Cohn-Bendit. I risultati della corsa alla Casa Bianca e delle elezioni europee parlano da sé, mettere al centro il green è l'unica cosa da fare per salvare il pianeta e paga anche elettoralmente, quindi non si capisce dove tutti gli altri vivano, se sono vivi, e cosa stiano aspettando. Quattro problemi però rimarranno stabili e imporranno il corso delle cose: economia globale in recessione, instabilità politica internazionale, petrolio in rapido esaurimento, cambiamento climatico. Quattro macigni legati in maniera intrinseca alla dimensione hard della modernità politica ed economica. Nell'architettura il passaggio dalla modernità alla postmodernità viene fatto risalire simbolicamente alla distruzione del complesso Pruitt-Igoe di Saint Louis, costruito sul modello della macchina per abitare di Le Courbusier, avvenuta nel 1972. Dal punto di vista economico la transizione è avvenuta solamente in parte, la globalizzazione dei mercati e delle reti informatiche è sclerotizzata in sé stessa e rischia l'implosione proprio perché continua a poggiarsi e ad andare avanti su energie e risorse del passato. La rete viene incontro al green molto di più di quanto non abbia già fatto verso le economie: satelliti, wireless, reti open source sono tasselli di distruzione gerarchica del potere che in cambio offrono un sistema nervoso costruito sul web, il potere è distribuito. La concentrazione è roba da carbone e seconda rivoluzione industriale. L'energia nucleare è un abbaglio pericoloso che ha già fatto il suo tempo, è il tentativo di prorogare il modello della concentrazione, dell'energia delle elites che presuppone investimenti geopolitici e militari, capitali enormi e centralizzati, vittime umane in guerra a far da sfondo. La rivoluzione informatica sta invece convergendo con quella energetica, un'energia distribuita. E dove sta l'energia distribuita? Nel nostro giardino. Sole, vento, scarti agricoli, maree, calore sotto terra. Come raccogliere e distribuire tutto questo ben di dio ove fosse necessario? Con gli edifici. Con le aziende, con casa tua. Ciascun edificio è un potenziale nodo di una rete ampia e globale. L'idrogeno è il carrier universale che permetterà di immagazzinare l'energia raccolta e distribuirla. La stessa funzione (rivoluzione) del digitale applicato all'energia. Ognuno si crea la sua energia pulita poi idrogeno e contatori penseranno a gestirla lungo la rete dove questa è necessaria. Tutta questa roba esiste già, anche la nostra Enel ce l'ha. Per abbracciare questa rivoluzione non basta però diffondere i benefici dell'innovazione tecnologica in materia, siamo di fronte ad un cambiamento che parte dalle nostra mente, dal modo con cui ci rapportiamo agli altri nella biosfera sociale e politica. Per fortuna la rete ci ha preparato in questi anni al cambiamento, il modello orizzontale del peer to peer sarà quello della terza rivoluzione industriale e non potrà che partire dall'energia. Le parole d'ordine sono condivisione e distribuzione, share and distribute. Il grosso server centrale è un mito vecchio e defunto. Unicentrismo, unipolarismo, monismo sono concezioni barbare che riflettono modi di gestire il potere e affrontare la realtà che fanno a pugni con la complessità e la postmodernità. In inglese la parola power si riferisce allo stesso tempo a energia e potere. L'energia é potere, da sempre è così. La comunità europea nasce nel secondo dopoguerra con l'obiettivo di gestire questo tipo di potere, la Ceca e l'Euratom ponevano la gestione congiunta di carbone, acciaio e energia atomica come policy fondativa della nuova Europa unita. Oggi la stabilità dell'euro tiene in vita il mondo, l'Europa è l'economia principale ma soffre di un complesso di inferiorità perché non ha altrettante risorse hard da mettere in campo per dire la sua e fare la voce grossa come Cina e USA. Il punto è che non ha senso inseguire un treno in corsa su un binario morto, sarebbe meglio invece dare il là al cambio di paradigma. Alla terza rivoluzione industriale. Con il sole italiano, il vento irlandese, le biomasse polacche. Tutto questo si può fare oggi. Alla Pepsi hanno ristrutturato alcune delle loro fabbriche per creare energia attraverso scarti e sole. In Aragona, General Motors ha usato il tetto di un suo stabilimento Opel per creare la più grande stazione solare del mondo, rendendo autonoma la fabbrica e fornendo energia pulita a 47 mila case circostanti. Dieci anni di tempo per ripagare il tutto, dopodiché energia gratis per sempre, la domanda è: perché non ovunque? Ad Abu Dhabi verrà messo in piedi un edificio che ruota costantemente come un serpente, non hanno il senso del limite, alimentato al 90% dall'eolico e al 10% dal solare, l'architetto che l'ha ideato è italiano. Perché non in Italia?

Saturday, June 27, 2009

L'azzardo morale della società senza merito

Il modello sociale basato su obiettivi uguali per tutti è arrivato al capolinea. Si rivelato un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, economico e sociale. Ma la questione è prima di tutto etica. Che una società giusta ed equa sia quella in cui tutti i cittadini sono uguali è un valore incontrovertibile. Ma garantire l’uguaglianza non significa imporre a tutti gli stessi obiettivi: questo è un giocare al ribasso. Significa invece essere liberi di definire il proprio sé in relazione alla società che cambia, crearsi un progetto di vita e avere l’accesso a tutti i mezzi disponibili per realizzarlo pienamente, secondo le proprie capacità. Definire un punto di arrivo uguale per tutti significa necessariamente porre un limite ai sogni ed alle reali possibilità di qualcuno e indicare al contempo un traguardo difficilmente raggiungibile per molti altri, creando così la necessità di un ingente flusso di risorse per sopperire ad una situazione artificiale che, in un conato autogiustificatorio, non raggiunge altro scopo che quello di alimentare la disuguaglianza e la pressione sociale. Questa via non è più praticabile né tanto meno sostenibile. Una società giusta ed equa è quella in cui tutti i cittadini hanno uguali condizioni di partenza, non di arrivo. Soltanto sostenendo, premiando ed incentivando il merito, si possono reperire le risorse per intervenire sul bisogno. L’alternativa è la morte del bene pubblico, l’assenza di aspirazioni e di incentivi a migliorare, l’attesa apatica, patetica e opportunistica di un minimo garantito. Il moral hazard, il fallimento di ogni forma di mercato e di società. La ragione di esistere dei soprusi e dell’immobilità sociale legata al censo e alla “robba”. Un individualismo arido e la triste idea che vivere allora significa avere. Tutto questo, non è giusto, non è democratico, non è bello. A ciò si deve preferire la società dell’essere. Essere felici. La felicità si raggiunge con l’autorealizzazione, con il compimento del proprio disegno di vita delle proprie aspirazioni.
La società postmoderna e globale impone nuove sfide sugli scenari della competizione internazione e ci presenta un cambiamento radicale nei rapporti tra cittadini e politica. L’affermazione dei valori dell’individuo passa attraverso meccanismi identitari inediti, come quelli del consumo e dei network relazionali personali e mediali. Per evitare derive solipsistiche bisogna intervenire strutturalmente sulla società introducendo la variabile merito. Un solido, trasparente e libero sistema di incentivi che sviluppi una concorrenza interna virtuosa, basata sulla conoscenza, sulle diverse tipologie di intelligenza, sulla creatività e sull’iniziativa. Il capitale più prezioso che si possa desiderare è quello costituito dalle risorse immateriali. Conoscenza e fiducia si perseguono sostenendo, premiando ed incentivando il merito. Solo così si potrà costruire un sistema di welfare sostenibile ed equo. Non un limbo da cui è impossibile o non conviene uscire, ma un affidabile tappeto elastico che rimbalza prontamente nel gioco chi è caduto, con un nuovo slancio; uno stato sociale che, ricco delle risorse stimolate dal merito, sostiene l’ineliminabile dinamica del bisogno in modo equo e non discriminatorio. Non sarebbe bello essere liberi di sognare, di costruire, di arrivare dove possiamo? Essere felici?

Tuesday, June 23, 2009

VOW - video of the week - ogni martedì su Intangible Economy

Intangible Economy presenta VOW - video of the week -
Ad integrazione dei nostri interventi, ogni martedì proporremo un filmato disponibile online. Ovviamente tutto in tema intangible.
Questa settimana, dato che abbiamo parlato di country brand, Italia Much More, campagna promossa da ENIT.

Friday, June 19, 2009

Penso digitale

I driver del consumo mediale si possono identificare in content-seeking e media-seeking. Queste due fondamentali dinamiche sono sempre presenti nelle scelte che le persone compiono quando fruiscono di contenuti di comunicazione. Financo nella sfera interpersonale, le motivazioni possono essere l’argomento o la persona con cui si comunica che spingono allo scambio comunicativo. I fattori che di volta in volta fanno pendere l’ago della bilancia verso l’una o verso l’altra delle componenti del valore mediale sono diversi. Oltre a misurare l’impatto sulla singola unità in un approccio micro, si possono chiaramente riconoscere dei trend a livello macro che si svolgono lungo la storia dei media.
La sterzata di paradigma si ha con l’avvento del CD rom: per la prima volta è possibile selezionare la singola traccia: con i dischi in vinile e con le audiocassette non era direttamente ed agilmente possibile. Anche il DVD cambia la fruizione del contenuto audiovisivo, permettendo di selezionare la singola scena, frammentando ulteriormente l’unità significativa del consumo. Questa caratteristica intrinseca nella tecnologia digitale di rendere il prodotto audiovisivo diventa un’unità autonoma e, grazie alla convergenza, fruibile su più supporti diversi, ha fornito una spinta all’offerta e alla domanda di librerie digitali immense.
Il ritorno della dimensione infantile dell’ascoltare la stessa storia “tecnicamente riprodotta” in modo identico ed on demand è facilitato dalle possibilità tecnologiche: la techne disponibile e la psiche si forgiano a vicenda.
Il prodotto audiovisivo in sé diventa quindi sempre più importante nella scelta delle persone, il che porta a due considerazioni. Innanzi tutto, cresce la richiesta di qualità, diversamente intesa, nell’offerta audiovisiva dei media; qualora questa non venga accolta, cala la channel loyalty e viene trovato sfogo nella ricerca altrove (ad esempio online). In secondo luogo, l’asse del potere si sposta dalla distribuzione verso la produzione. Le implicazioni sono molteplici. Prima di tutto, è necessaria una presa di coscienza che il de-bundling dei prodotti, le librerie e gli archivi possono accontentare i content-seeker che, come dimostra iTunes, sono anche disposti a pagare per il contenuto online. Secondo, i canali tradizionali devono trovare nuove modalità di fidelizzazione ad esempio assumendo online il ruolo di infomediari che selezionano contenuti dal mare di materiale disponibile e permettendo di personalizzare i palinsesti, il tutto suggellato da un forte brand, Infine, si aprono enormi opportunità di collaborazione tra i produttori audiovisivi ed i brand manager.

Wednesday, June 17, 2009

Una domanda (legittima) di tracciabilità

Una delle reazioni alle manifestazioni della società del rischio di cui parla Beck è la domanda di tracciabilità dei prodotti che vengono consumati. Parallelamente al rischio globale e condiviso, infatti il rischio a livello personale si presenta sotto forma di percezione del potenziale impatto fisico (ad esempio sulla salute), finanziario, oppure di natura intangibile (rischio psicologico e sociale). La criticità è aumentata in seguito ai processi di globalizzazione che caratterizzano la postmodernità e che hanno spinto le imprese alla creazione di global supply chains. Se, da un lato, queste rispondono ad una logica di divisione internazionale del lavoro, dall'altro sono caratterizzate da incertezza. Infatti, la stickiness superficiale dei network di fornitura su scala internazionale in realtà sottende un'estrema dinamicità e volatilità, e come ha dimostrato la crisi recente l'effetto domino si estende rapidamente. A livello di singola relazione tra impresa e fornitore, comunque, permangono pur sia nel contesto di relazioni ad alto coinvolgimento (tipo partneship o strategic supply relationships) delle asimmetrie informative e la perdita di controllo da parte dell'impresa cliente. Detto ciò, la visibilità a cui sono esposti i brand oggi non rende giustificabile una mancanza di trasparenza o, peggio ancora, l'idea di potersi sottrarre a sguardi indiscreti nascondendosi in paesi lontani all'insegna dell'assenza di regole. Il brand rischia infatti di essere intaccato dalle ricadute sulla qualità e dai risvolti etici di alcune pratiche di business portate avanti nei paesi in via di sviluppo. A ciò vanno aggiunti l'utilizzo di tecnologie il cui impatto sulla vita del pianeta e delle persone è ancora tutto da valutare e le modalità, spesso discutibili e per loro natura limitate, di gestione del rischio adottate dai governi nazionali. Il rischio fisico di consumare prodotti dall'origine incerta ed il rischio psicologico e sociale di vedere il self-brand image fit assottigliarsi fino a percepire negativamente l'essere associati ad un brand spingono un gruppo sempre più ampio di consumatori ad avanzare la richiesta di certezze riguardo l'origine e le modalità di produzione dei prodotti. D'altronde, chi vorrebbe mangiare della carne non sicura o regalare come simbolo d'amore alla propria futura sposa un "blood diamond"? Non si tratta di etnocentrismo o di opposizione alla globalizzazione. Si tratta, per le imprese ed i governi, di capirne i risvolti: consumatori più consapevoli e rinata attenzione per il "locale". Il ruolo del brand come motore semiotico, in grado di condensare significati ed esperienze e di fungere da segnale di qualità, promessa e garanzia è decisivo in questo frangente. Quindi, al di là delle imposizioni legislative sul labelling e le certificazioni, si aprono delle grandi potenzialità per il brand management e non solo: da un lato, ciò che Keller chiama "leverage secondary brand associations" e cioè associare il proprio prodotto con il paese o il territorio d'origine; dall'altro, lo sviluppo insieme alle PPAA di country brand e marchi d'area. In definitiva, bisogna prendere atto che c'è un rinnovato interesse per ciò che è locale ed autoctono oppure etnico, con diverse implicazioni nei comportamenti di consumo e nel turismo. Le denominazioni o indicazioni di origine geografica per l'enogastronomia, la cultura locale, l'artigianato e il folklore diventano un vantaggio competitivo nel destination management sotto l'ombrello di un marchio d'area o di un country brand che può anche essere utilizzato dai brand industriali per segnalare l'origine dei prodotti e trarne brand equity.

Tuesday, June 16, 2009

Il feticismo della terra genera insicurezza

La modalità di business prediletta dai grandi gruppi multinazionali rimane da più di vent'anni investire in maniera diretta in mercati emergenti e in paesi in via di sviluppo. Da questa scelta deriva un modello industriale fondato su delocalizzazione dei processi produttivi e mantenimento nei propri headquarters occidentali delle high-value activities (design, marketing, servizi), in modo da ridurre i costi di produzione grazie ad abbondanza di manodopera e materie prime da estrarre a basso costo. Questo modo di vedere le cose, argomentato da decenni di tesi terzomondiste, mantiene il suo fondo di oggettività ma si dimostra riduttivo e incapace di comprendere la portata del cambiamento in atto. Paesi come Singapore, Svizzera e Hong Kong godono di economie avanzate e dinamiche interpretando nel migliore dei modi la loro virtualization: dentro sviluppo brand, csr e brevetti innovativi, il resto verrà da fuori. Questi Stati si muovono agili come moderne repubbliche marinare in una riedizione del mercantilismo seicentesco globalizzato e tecnologizzato. La centralità si sposta dagli stock (terra, risorse naturali) ai flussi (capitali, beni, persone). Anche un Paese tipicamente fiero delle proprie hard competence, come gli Usa, va in questa direzione ormai da tempo. Dal punto di vista politico il cambiamento non lascia indifferenti: il processo di virtualizzazione basato sui flussi rafforza i meccanismi di interdipendenza e funziona come uno straordinario incentivo alla cooperazione, il che significa risoluzione pacifica di frizioni e conflitti in giro per il mondo. Dove sta il trucco? Attori importanti come Cina e Russia, e in seconda linea tutta l'area del Medio Oriente, non condividono questa logica. Ci sono motivi validi per ritenere che non la condivideranno per molto e molto tempo ancora. Sono dei feticisti della terra, fanno della potenza materiale, energetica e demografica il loro elemento di forza principale. Talvolta come strumento di ricatto energetico, per quanto concerne la Russia, più di tronfia e ineluttabile avanzata nel caso della Cina. E con il loro land fetish c'è poco da fare, mentre per la nostra Italia le prospettive sono enormi dato che siamo il Paese che per eccellenza potrebbe godere dello scenario odierno: patria del made in italy, impareggiabili nello sfornare miti e immaginari collettivi, maestri del design, seduttori nel dna e con un tessuto industriale costituito all'80% da piccole e medie imprese. Affacciamole di più sul mondo, vendiamo con più convinzione le tante piccole eccellenze di questo Paese e poniamo i presupposti, qui le responsabilità sono in primis istituzionali, per attrarre flussi di capitali e di persone aldilà del pensionato americano in Versilia. L'Italia ha tutti i numeri per essere protagonista della intangible economy, a patto di disegnare un nuovo framework compatibile con le sfide della virtualizzazione.


Monday, June 15, 2009

Pronti, via!

Benvenuti in Intangible Economy, il blog gestito da Marcello Coppa e Andrea Landini, dove si parla di tutto ciò che di intangibile influenza l'economia e la società. Il tema è volutamente ampio, a supporto della nostra idea che l'iper-specializzazione a lungo andare atrofizza la sensibilità analitica e fa perdere di vista i grandi nessi. La chiave per comprendere la complessità è abbracciarla, non chiuderla fuori dalla porta. Siamo sempre aperti a nuove sfide, interessi, passioni. Per formazione studiosi di comunicazione, ci siamo poi specializzati verso l'economia con un taglio politico-internazionale (Andrea) e del business (Marcello). Ciò che ci tiene assieme, oltre l'amicizia, la passione per la politica e per l'enogastronomia, è la condivisione di una visione. Uno spiccato interesse per il brand e la corporate social responsibility come manifestazioni della natura semiotica e comunicativa dell'agire umano. Inoltre, la convinzione che la prossima partita si giocherà (si sta già giocando) sulla capacità di coltivare e riprodurre qualcosa di intangibile: conoscenza, fiducia, virtù etiche, obiettivi, felicità, relazioni, identità, cultura... Vale per le persone, vale per le organizzazioni e le imprese, vale per la cosa pubblica.
Abbiamo scelto la forma del blog perché rispecchia il nostro approccio ai problemi e gli interrogativi che ci poniamo. Alcuni si risolveranno in un post, altri si svilupperanno in un thread. Tutti, comunque, saranno collegati e collegabili in una rete di conoscenza che è, giocoforza, sempre in evoluzione.