Tuesday, June 16, 2009

Il feticismo della terra genera insicurezza

La modalità di business prediletta dai grandi gruppi multinazionali rimane da più di vent'anni investire in maniera diretta in mercati emergenti e in paesi in via di sviluppo. Da questa scelta deriva un modello industriale fondato su delocalizzazione dei processi produttivi e mantenimento nei propri headquarters occidentali delle high-value activities (design, marketing, servizi), in modo da ridurre i costi di produzione grazie ad abbondanza di manodopera e materie prime da estrarre a basso costo. Questo modo di vedere le cose, argomentato da decenni di tesi terzomondiste, mantiene il suo fondo di oggettività ma si dimostra riduttivo e incapace di comprendere la portata del cambiamento in atto. Paesi come Singapore, Svizzera e Hong Kong godono di economie avanzate e dinamiche interpretando nel migliore dei modi la loro virtualization: dentro sviluppo brand, csr e brevetti innovativi, il resto verrà da fuori. Questi Stati si muovono agili come moderne repubbliche marinare in una riedizione del mercantilismo seicentesco globalizzato e tecnologizzato. La centralità si sposta dagli stock (terra, risorse naturali) ai flussi (capitali, beni, persone). Anche un Paese tipicamente fiero delle proprie hard competence, come gli Usa, va in questa direzione ormai da tempo. Dal punto di vista politico il cambiamento non lascia indifferenti: il processo di virtualizzazione basato sui flussi rafforza i meccanismi di interdipendenza e funziona come uno straordinario incentivo alla cooperazione, il che significa risoluzione pacifica di frizioni e conflitti in giro per il mondo. Dove sta il trucco? Attori importanti come Cina e Russia, e in seconda linea tutta l'area del Medio Oriente, non condividono questa logica. Ci sono motivi validi per ritenere che non la condivideranno per molto e molto tempo ancora. Sono dei feticisti della terra, fanno della potenza materiale, energetica e demografica il loro elemento di forza principale. Talvolta come strumento di ricatto energetico, per quanto concerne la Russia, più di tronfia e ineluttabile avanzata nel caso della Cina. E con il loro land fetish c'è poco da fare, mentre per la nostra Italia le prospettive sono enormi dato che siamo il Paese che per eccellenza potrebbe godere dello scenario odierno: patria del made in italy, impareggiabili nello sfornare miti e immaginari collettivi, maestri del design, seduttori nel dna e con un tessuto industriale costituito all'80% da piccole e medie imprese. Affacciamole di più sul mondo, vendiamo con più convinzione le tante piccole eccellenze di questo Paese e poniamo i presupposti, qui le responsabilità sono in primis istituzionali, per attrarre flussi di capitali e di persone aldilà del pensionato americano in Versilia. L'Italia ha tutti i numeri per essere protagonista della intangible economy, a patto di disegnare un nuovo framework compatibile con le sfide della virtualizzazione.


No comments:

Post a Comment