Wednesday, June 17, 2009

Una domanda (legittima) di tracciabilità

Una delle reazioni alle manifestazioni della società del rischio di cui parla Beck è la domanda di tracciabilità dei prodotti che vengono consumati. Parallelamente al rischio globale e condiviso, infatti il rischio a livello personale si presenta sotto forma di percezione del potenziale impatto fisico (ad esempio sulla salute), finanziario, oppure di natura intangibile (rischio psicologico e sociale). La criticità è aumentata in seguito ai processi di globalizzazione che caratterizzano la postmodernità e che hanno spinto le imprese alla creazione di global supply chains. Se, da un lato, queste rispondono ad una logica di divisione internazionale del lavoro, dall'altro sono caratterizzate da incertezza. Infatti, la stickiness superficiale dei network di fornitura su scala internazionale in realtà sottende un'estrema dinamicità e volatilità, e come ha dimostrato la crisi recente l'effetto domino si estende rapidamente. A livello di singola relazione tra impresa e fornitore, comunque, permangono pur sia nel contesto di relazioni ad alto coinvolgimento (tipo partneship o strategic supply relationships) delle asimmetrie informative e la perdita di controllo da parte dell'impresa cliente. Detto ciò, la visibilità a cui sono esposti i brand oggi non rende giustificabile una mancanza di trasparenza o, peggio ancora, l'idea di potersi sottrarre a sguardi indiscreti nascondendosi in paesi lontani all'insegna dell'assenza di regole. Il brand rischia infatti di essere intaccato dalle ricadute sulla qualità e dai risvolti etici di alcune pratiche di business portate avanti nei paesi in via di sviluppo. A ciò vanno aggiunti l'utilizzo di tecnologie il cui impatto sulla vita del pianeta e delle persone è ancora tutto da valutare e le modalità, spesso discutibili e per loro natura limitate, di gestione del rischio adottate dai governi nazionali. Il rischio fisico di consumare prodotti dall'origine incerta ed il rischio psicologico e sociale di vedere il self-brand image fit assottigliarsi fino a percepire negativamente l'essere associati ad un brand spingono un gruppo sempre più ampio di consumatori ad avanzare la richiesta di certezze riguardo l'origine e le modalità di produzione dei prodotti. D'altronde, chi vorrebbe mangiare della carne non sicura o regalare come simbolo d'amore alla propria futura sposa un "blood diamond"? Non si tratta di etnocentrismo o di opposizione alla globalizzazione. Si tratta, per le imprese ed i governi, di capirne i risvolti: consumatori più consapevoli e rinata attenzione per il "locale". Il ruolo del brand come motore semiotico, in grado di condensare significati ed esperienze e di fungere da segnale di qualità, promessa e garanzia è decisivo in questo frangente. Quindi, al di là delle imposizioni legislative sul labelling e le certificazioni, si aprono delle grandi potenzialità per il brand management e non solo: da un lato, ciò che Keller chiama "leverage secondary brand associations" e cioè associare il proprio prodotto con il paese o il territorio d'origine; dall'altro, lo sviluppo insieme alle PPAA di country brand e marchi d'area. In definitiva, bisogna prendere atto che c'è un rinnovato interesse per ciò che è locale ed autoctono oppure etnico, con diverse implicazioni nei comportamenti di consumo e nel turismo. Le denominazioni o indicazioni di origine geografica per l'enogastronomia, la cultura locale, l'artigianato e il folklore diventano un vantaggio competitivo nel destination management sotto l'ombrello di un marchio d'area o di un country brand che può anche essere utilizzato dai brand industriali per segnalare l'origine dei prodotti e trarne brand equity.

No comments:

Post a Comment