Sunday, November 22, 2009

The power of activism - Spar & La Mure, 2003

Spar, D. L., La Mure, L. T. 2003. The power of activism: assessing the impact of NGOs on global business. In California management review, vol. 45 (3): 78-101.

Key issue: Why corporations respond differently to NGOs pressure?

This exploratory study identifies three strategies that corporations can choose to respond to activism: pre-emption, capitulation, resistance. What determines this variation? First of all, a fast excursus of the history of activism is offered. Drawing a parallel between the slavery abolition movement founded in 1775 by the Pennsilvania Quaker activists and today’s pressure groups, the authors identify “the business of NGOs” (p. 79) in targeting the source of power and the possible agents of change. They remember that the shift from pressuring state actors to non-state is not something new: the American anti-British movement in 1765 organized a boycott against the old-country. So, the more corporations become powerful, the more they become the target of activism. Due to limited resources, NGOs concentrate their effort on the big brands. The main instrument they use is the threat of a financial harm. However, the cost of activism is not directly measurable and there is scattered evidence from the literature. Why then corporations respond to activism? According to a rational response model, the cost of activism should be considered as another cost of doing business, therefore evaluating potential harm and cost of response. In particular, managers evaluate: transaction costs, brand impact and competitive position. If an economic view were dominant, resistance would be the normal response in many cases, but actually many companies pre-empt activism. This could be explained looking at manager’s personal motives and beliefs, which become particularly significant in case of family businesses and strong charismatic leadership. 3 case studies follow: Unocal in Burma, Nike and Novartis.

Serie: materiali per la CSR

Nelle prossime settimane getterò le fondamenta per un archivio di materiali sulla CSR. Questo lavoro è preliminare alla mia tesi di Master e potrebbe essere utile a chi si interessa della materia. Per comodità mia sarà tutto in lingua inglese, quindi fruibile ad un pubblico molto più ampio. Il mio lavoro finale sarà un'indagine su come viene percepita e praticata la corporate social responsibility nelle piccole e medie imprese italiane, replicando uno studio del Prof. Sriramesh (Massey University, Nuova Zelanda) su Singapore. L'idea è quella di creare le basi per una Global CSR, mettendo in luce l'impatto del macro-ambiente (ordinamento politico, infrastruttura economica, cultura, sistema dei media e livello di attivismo) sulle percezioni e le strategie di CSR.

Tuesday, November 17, 2009

VOW / 16

Gli ultimi sviluppi del brand management: sviluppare partnership significative e creare community: Harley Davidson.

Tuesday, November 10, 2009

Thursday, November 5, 2009

CSR, norme e cigni neri

Proviamo a ragionare attorno alla possibilità di un approccio normativo (in senso giuridico) alla CSR. La norma è una regola generale, astratta e coattiva, basata sui valori guida di un ordinamento sociale. Fatto sta, che le norme regolano soltanto una parte della nostra vita in società e sono affiancate da una serie innumerevole di regole non scritte che influenzano il comportamento. Il concetto di norma implica quindi una semplificazione, un appiattimento. Anche in statistica, la curva di Bell che rappresenta una distribuzione normale è un modo efficiente per rappresentare molti fenomeni. Qui, il 95% dei casi si concentra a ±1,96 sigma dalla media e centrare dei valori in questo intervallo è considerato un grado probabilistico accettabile. L’esperienza però ci dice che sono le code della distribuzione a fare la differenza. Sono i Black Swans (Taleb). Sono i “comici”, che stanno ai margini della società e rivestono una funzione liminale (Bachtin), ma proprio per questo le forniscono una salutare traspirazione con l’esterno. Sono gli outliers, coloro che sfidano le convenzioni. Sono le mutazioni genetiche che portano avanti il processo evolutivo. La metafora evolutiva ci aiuta a comprendere come le code della distribuzione esistono in funzione degli incentivi ambientali. Un processo regolatorio sulla responsabilità d’impresa deve quindi essere inteso non come levelling-off, ma come sistema di incentivi che proattivamente alzi l’asticella, a rischio di spingere fuori dal mercato quelle imprese che si trovano nella coda sbagliata della distribuzione e scommettendo sulla possibilità di “ingrassare” la coda più all’avanguardia. Il mandato del settore pubblico è quello di gestire le priorità, ruolo che diventa critico quando gli interessi privati collidono con quelli pubblici. È quindi perdente qualunque difesa di chi continua a produrre con un sistema datato ed eco-illogico. Sarebbe come esonerare dalla pollution charge chi possiede veicoli inquinanti sostenendo che altrimenti resterebbe a piedi. La soluzione, in questo caso, consiste invece nel fornire un cuscino di mezzi pubblici su cui atterrare morbidamente. La logica del sistema di incentivi e di cuscini è da tenere presente quando si considera se e come legiferare sulla CSR tendendo presente che l’approccio volontario ha costituito finora il limite e la forza della CSR come strumento competitivo. I problemi legati al regolamentare la CSR sono molteplici. Prima di tutto, la sovranità nazionale degli stati si scontra con la globalizzazione (rimando al post di Andrea: “Il ruolo delle istituzioni pubbliche nella CSR”). Inoltre, la responsabilità d’impresa è industry-bound o, ancora più precisamente, network-bound. È cioè strettamente specifica della rete del valore di ogni singola impresa, che ne definisce le sfide e le peculiarità. Non ha senso parlare di una CSR in generale. Imprese diverse hanno diverse responsabilità, a seconda del loro modello di business. Quindi, ad esempio, una regolamentazione sul reporting in termini di “triple bottom line” rischia di presentare delle maglie talmente larghe da far proliferare dei CSR report “vuoti” (già ce ne sono molti!); oppure c’è la possibilità che fioriscano una serie di indicazioni minuziose su ogni industria, quindi, per forza di cose, complicate, aggirabili, incomplete, e statiche rispetto all’evoluzione delle reti di imprese e dei modelli di business. Una soluzione potrebbe essere quella di far valere il diritto all’informazione (escludendo per ovvi motivi i segreti commerciali) nei confronti delle imprese. Quindi, far sì che quando un cittadino o una NGO richiede il calcolo delle emissioni di CO2 o l’elenco dei fornitori, un’impresa sia tenuta a comunicarlo. Si tratta di entrare in una logica di trasparenza totale, in cui la persona giuridica impresa ha diritti, ma anche doveri vincolanti, che se non rispettati possono portare ad una sospensione dei diritti stessi.

Tuesday, November 3, 2009

VOW / 14

Passiamo il video di presentazione dei risultati di uno studio sulla CSR di IBM Global Business Services.

Sunday, November 1, 2009

Calcola la tua carbon footprint

Segnaliamo questa applicazione per calcolare la carbon footprint personale, presentata dal WWF sul sito de La Repubblica.

Tuesday, October 27, 2009

VOW / 13

Il paradosso della scelta.

Monday, October 26, 2009

La strategia aziendale nel network

L’approccio tradizionale alla strategia aziendale ha come unità di analisi la singola impresa, intesa in senso microeconomico come sistema di produzione. Un simile focus non abbraccia la complessità ambientale in cui le organizzazioni normalmente agiscono e fallisce dal punto di vista positivo nel descrivere come effettivamente si muovono. Snehota e Hakansson (1989) ricordano in un contributo seminale, da cui traiamo ispirazione per questo post, che “no business is an island”. Le imprese sono immerse in una rete di relazioni con fornitori, distributori e numerosi altri attori. La maturità di molti mercati nei paesi sviluppati significa consumatori finali più disincantati, con meno incertezze, più sofisticati. Il ciclo di vita di molti prodotti e di conseguenza delle tecnologie che incorporano viene compresso, provocando una pressione temporale sulle imprese. Inoltre, le offerte diventano sempre più complesse e ricche di tecnologia. Poi, c’è il trend della globalizzazione che aggiunge ulteriore pressione competitiva, ma anche molte opportunità. Le imprese, quindi, "esplodono". Iniziano a fare outsourcing ed offshoring perché non è possibile controllare tutte le tecnologie necessarie per un creare un’offerta di valore. Queste considerazioni valgono per i mercati B2C e B2B. Nel contesto descritto, quindi un’impresa è caratterizzata dal portafoglio di relazioni che detiene. Ed in ogni relazione, i risultati dipendono dal comportamento di entrambe le parti. Tutto è path dependent, frutto della cooperazione o del conflitto, delle reciproche posizioni, dei commitments. Fornitori ed imprese clienti si stendono una serie di fili: i legami tra le persone, l’interdipendenza tra le risorse ed i collegamenti tra le attività. Le offerte, nel marketing B2B, presentano infatti un elevato grado di customizzazione, ma in una relazione gli adattamenti sono giocoforza reciproci. Hakansson e Snehota descrivono i fardelli delle relazioni di business: stickiness, perdita di controllo, incertezza, elevato impiego di energie (costi e tempo), esclusività. Adottando quest’ottica olistica, bisogna quindi rivedere il concetto di strategia aziendale. Da una parte, gli adattamenti dell’offerta, ad esempio, rischiano di portare ad uno strategic drift, cioè di allontanare l’impresa dalla strategia dichiarata. Dall’altra, i legami e le interdipendenze con altre imprese, forgiano la struttura, le risorse, le tecnologie, i processi e quindi la strategia aziendale. Richiamando la distinzione operata da Mitzberg (1987) tra emergent e deliberate strategy, quindi è possibile concludere come la strategia aziendale realizzata sia in realtà il frutto della posizione dell’impresa all’interno di un network. Le relazioni con altri attori influiscono sull'efficienza e sui confini organizzativi. Definire la strategia significa quindi gestire il portafoglio di relazioni esistenti, senza cadere nell’errore di credere che sia possibile organizzarsi meccanicamente per il network "management". Le relazioni diadiche, infatti, non sono per definizione “gestibili” da nessuna delle due parti singolarmente, ma sono l’esito del comportamento congiunto, del compromesso, di adattamenti reciproci. Ancora meno si può pensare di influire nel breve periodo sulla struttura della rete di imprese. Chi si deve occupare quindi di definire la strategia? Il middle management, che ha preso e prende le decisioni quotidiane che costituiscono la strategia realizzata, deve assumere un ruolo di primo piano nella pianificazione: senza di loro non si va da nessuna parte. Al top management, invece, spetta il compito di provvedere le risorse, la struttura, il clima e gli incentivi necessari per la sua realizzazione, nei limiti imposti dal contesto di network.

Tuesday, October 20, 2009

Dal salone della CSR

Case studies e workshop interessanti per molti versi. Per un riassunto completo delle iniziative vedi il sito. Ciò che emerge dall’ultima edizione del salone Dal dire al Fare, è soprattutto l’immagine dello stato della CSR in Italia. Abbiamo avuto l’impressione che il dibattito sulla CSR in Italia sia ancora ad uno stato embrionale. L’impresa è al centro della scena e manca una visione d’insieme sulle value networks, sul ruolo dei governi e del no profit nella CSR, sui practitioners. I significati della responsabilità d’impresa sono piuttosto naif, dobbiamo ancora giustificarne la presenza e l’importanza strategica, ed in molti interventi si è sentita ancora la necessità di definirla.

C’è ancora molto da fare, insomma. Incontri di questo tipo sono sicuramente positivi, ma bisogna iniziare ad alzare un po’ l’asticella.

Thursday, October 15, 2009

Coming soon

Tra tesi, esami, lezioni, groupwork e stage vari abbiamo bisogno di una breve pausa per il blog. Dateci ancora qualche giorno e poi soddisferemo le vostre aspettative con nuovi interventi. Stiamo lavorando a:
  • un resoconto del salone della CSR "Dal dire al fare",
  • una rassegna di materiali sulla CSR estratti dalla letteratura internazionale (saranno decine di articoli schedati con un format unico di facile consultazione),
  • un post sulle network distributions ed il channel marketing,
  • un modello di responsible brand management,
  • analisi di alcuni CSR reports,
  • delle interviste con CSR practitioners.
Come vedete, c'è tanta carne al fuoco.
A presto!

Tuesday, October 6, 2009

VOW / 12

Iniziamo una serie di post che ospiterà diverse voci che si inseriscono nel dibattito sulla corporate social responsibility con un video. Il trailer dell'interessante documentario "The corporation", che porta il punto di vista di chi fa risalire alla natura stessa di persona giuridica delle corporations l'origine del problema. Il "mostro" creato a colpi di incorporations sentenze si sottrae al gioco del controllo democratico e in quanto "externalizing machine" ha un che di virale. In quest'ottica, quindi, non esiste CSR, in quanto è la forma stessa della corporation ad essere irresponsabile. Dichiarare che la proprietà è una persona, è infatti anti-democratico quanto dichiarare che la persona possa essere una proprietà, facendo cioè apologia della schiavitù. Per approfondire: Ritz, "Can corporate personhood be socially responsible?", in May, Cheney, Roper, The debate over Corporate Social Responsibility, Oxford University Press, NY, 2007.

Thursday, October 1, 2009

Personificazione, eroismo e mitologia del potere.

Ci sono persone che più di altre catalizzano l’attenzione su di sé, vuoi per la loro personalità, vuoi per il ruolo che ricoprono ed il potere che detengono. CEO, presidenti, premier diventano spesso la faccia delle organizzazioni e dei territori che amministrano, il loro corpo ne diventa metafora in una maniera che echeggia il religioso. Il potere viene personificato, il verbo si fa carne. E questo avviene anche all’interno di meccanismi democratici o comunque dove esistono squadre di governo che grazie all’azione congiunta portano avanti la baracca. È il caso della direzione di molte aziende, ma anche del presidente degli Stati Uniti. Com’è possibile? E che effetti ha la personificazione, la creazione di eroi e miti?
Innanzi tutto bisogna indagare la struttura narrativa che spesso ricorre nel nostro pensiero. Le storie sono il modo in cui leggiamo e cataloghiamo ciò che accade nel mondo. Condensare la conoscenza in un susseguirsi temporale di azioni, portate avanti da personaggi, in una certa scena, con un determinato scopo e grazie a certi strumenti, si è rivelata una modalità di estrema comodità euristica. Questa è la struttura pentadica delle storie di cui parla Burke. Ci piace raccontarcela, insomma. E raccontiamo storie su tutto, anche su noi stessi e sugli altri. Le storie sono una parte fondamentale dei meccanismi identitari che portano all’affermazione del sé. Soffermiamoci sui personaggi, quindi. Senza personaggi la storia non esiste. Ed è proprio nella forma dell’eroe che la storia assume la sua forma più potente ed accattivante. Ognuno si costruisce il proprio pantheon. Queste osservazioni sono alla base della narrativizzazione delle notizie che il giornalismo adotta per catturare l’attenzione dei lettori. E sono la stampa, e soprattutto la televisione, a raccontare e a personificare, a creare miti ed eroi e a portare lo sguardo sul corpo del leader. Nella società dello spettacolo il divismo è una struttura centrale e la personificazione viene accentuata. Il risvolto è che identificazione, ammirazione e voyeurismo si intrecciano. Quando la persona diventa merce, come in una vetrina, il confine tra dentro e fuori, tra pubblico e privato, tra persona e organizzazione, si fa trasparente. Quando un capo di stato parla ed agisce, lo fa a nome della nazione; parla ed agisce in conto dell’azienda il CEO. Lo sa bene il manager inglese Ratner, che ha distrutto l’impero dei gioielli che aveva ereditato con una battuta: “How can you make jewels that cost so little?” - “Well, because it’s shit!”. Tutto in fumo. Lo sanno bene, o dovrebbero saperlo, i personaggi politici. Gli esempi di personificazione e di mitologia sono moltissimi, alcuni li abbiamo già fatti. Berlusconi, il suo opuscolo “una storia italiana” e le cronache di oggi; Cacciari è Venezia come Formigoni è Regione Lombardia (la definizione stessa di “governatore” è invenzione giornalistica); Steve Jobs, il pirata di Silicon Valley, il viaggio in India e la malattia ora (auguri Steve!); Anita Roddick, l’attivismo giovanile e The Body Shop, poi passata a L’Oréal; Olivetti, la fabbrica di Ivrea e l’impegno sociale; Prodi che è stato il simbolo di una squadra di governo molto eterogenea e si è lasciato raccontare da lasciare l’amaro in bocca; Obama e Sarkozy… Ci sono esempi positivi e negativi. Esempi di chi si racconta bene, e di chi si fa raccontare male, esempi di chi ha qualcosa da raccontare e di chi se lo inventa, di chi ha un “animal spirit” che ammalia e di chi non ha idea di cosa rappresenta in quel momento.
La personificazione, l’eroismo e la mitologia hanno anche una indubbia funzione di rafforzare l’identificazione, la cultura interna, l’affiatamento, il consenso. Se ci si pensa attentamente è proprio quello che manca all’Europa (ed ai partiti europei). Corale, collegiale e plurilinguistica per definizione, è difficile da narrare e non riesce a coinvolgere, è più facilmente additabile come l’origine di leggi non gradite, risulta atomizzata e non compatta e monolitica, quindi debole. Le elezioni europee sono ricondotte ad un sondaggio sulla politica interna, un prova di leadership.
Le dinamiche che abbiamo descritto sono quindi un fattore chiave nella comunicazione oggi. Che lo si voglia o no, spesso si gioca in questa logica, vuoi per il sistema dei media o per l’ambiente competitivo. Il trucco sta nel raccontarsi onestamente e con ethos e nel capire cosa comporta avere gli occhi addosso quando si ricopre un certo ruolo. Avere consapevolezza del potere e delle logiche dei media (valori notizia, sound bites, personificazione, narrativizzazione…). Pensare alle conseguenze di lungo periodo, alla interrelazione e sovrapposizione tra persona fisica e organizzazione, tra rappresentante e rappresentato.

Wednesday, September 30, 2009

Dal dire al fare

Lo staff di Intangible Economy ieri ed oggi è stato al salone della CSR "dal dire al fare", che quest'anno è ospitato dall'Università Bocconi di Milano. Al più presto, seguiranno commenti, cronache e spunti.

Tuesday, September 29, 2009

VOW / 11

Da dove vengono le cose che compriamo e dove vanno a finire? The story of stuff.

Thursday, September 24, 2009

La diffusione della logica di marca

La valenza semiotica della marca, capace di condensare informazione (in senso meccanico-funzionale), ma soprattutto di essere motore di significazione a livello sociale e personale, ne ha decretato l’applicazione con successo nel campo industriale, commerciale e dei servizi. L’alfabetizzazione al linguaggio della marca che caratterizza i cittadini-consumatori della società postmoderna ed il crescente peso della componente immateriale nell’economia reale (la società meno materialistica che esista…) ha portato ad un processo di diffusione osmotica di una logica di marca anche ad ambiti sempre più lontani da quelli in cui la marca è nata. Ecco che qualunque entità può essere comunicata facendone una marca. Nel passaggio dal marchio alla marca e alla logica di marca poi, viene meno la componente di fisicità. I contenuti intangibili prevalgono. Applicare la logica di marca ad ambiti nuovi, come le persone, i territori, gli enti pubblici, il cinema, l’arte, la cultura, le idee, le persone non significa necessariamente ricondurre il tutto alla dimensione del profitto. Anzi! Uno dei concetti fondamentali nel brand management è che la brand equity è path dependent, è frutto della storia ed è un disegno a lungo termine. Semini oggi e raccogli domani. L’obiettivo è creare dei legami con i propri pubblici, legami affettivi, fiducia, coinvolgimento, senso di comunità. Tutto questo, secondo la teoria dello shareholder value, è poi legato da una profit chain alla riproduzione di risorse finanziarie. Ma questo passaggio ulteriore, non è il fine necessario. Saranno la natura dell’impresa, la sua mission e la coalizione dominante a determinarne l’impiego nei confronti di tutti o di un gruppo di stakeholders. In questo senso, i benefici sono reciproci, in quanto il brand management tradizionale può imparare molto dalla capacità magnetica che hanno altri, primo fra tutti il no profit, di attrarre e mantenere relazioni durature con i loro interlocutori.

Wednesday, September 23, 2009

La sottile linea verde

Buoni propositi in vista di Copenhagen da Washington e Pechino. Alla conferenza ONU sull'ambiente, tenutasi a New York, Obama e Hu Jintao hanno promesso di iniziare a posare le prime pietre per una green way. In cantiere tagli alle emissioni di CO2 e trasferimenti di teconologie verdi ai Paesi emergenti.

Tuesday, September 22, 2009

VOW / 10

Guy Kawasaki parla dell'innovazione.


Friday, September 18, 2009

La dimensione esperienziale del consumo

I processi di acquisito occupano una parte significativa della vita delle persone. Il consumo diventa un linguaggio con il quale esprimere il proprio sé, rivelare aspirazioni e personalità, un modo per costruirsi un’identità, differenziarsi o sentirsi inclusi. Ciò che consumiamo dice molto su di noi, tant’è che esiste una branca della sociologia, chiamata garbology, che studia gli avanzi, gli scarti, i rifiuti della civiltà dei consumi. Anche in questo senso, come direbbe Watzlawick, “è impossibile non comunicare”. Le motivazioni alla base del consumo possono essere generalmente di natura utilitaristica o edonistica. Quest'ultima dimensione spesso prevale nell’agire del consumatore postmoderno: lo shopping come avventura, l’aspetto corale e relazionale degli acquisti in gruppo, l’essere sempre all’ultima moda, i meccanismi di gratificazione, la ricerca del piacere dello sconto, del saldo, dell’offerta… Lo shopping diventa intrattenimento e compete sul mercato del tempo libero delle persone per la “share of time”. In questo senso è evidente come l’ambiente di consumo può determinare l’esito del comportamento di acquisto. La dimensione esperienziale del consumo include l’aspetto fisico e quello sociale. Gli elementi fisici che entrano in gioco sono il décor del punto vendita, i colori, le forme e la disposizione fisica di vuoti e pieni, la musica, i suoni, i rumori e il silenzio, i profumi, gli odori, la temperatura e i materiali. La polisensorialità contribuisce e creare il carattere distintivo di ogni esperienza. Assumono inoltre particolare importanza gli stimoli presenti sul punto vendita, capaci di ingenerare comportamenti di impulso e di rivelare il paradosso del coinvolgimento: le azioni di marketing in store risultano più efficaci proprio per quei beni a basso coinvolgimento. L’aspetto sociale include la presenza di altri consumatori sul luogo del consumo e la qualità delle interazioni con il personale di vendita. Il numero e la tipologia dei co-consumatori può portare ad esperienze radicalmente diverse. In una situazione altamente competitiva, in cui il consumo rientra nei meccanismi di significazione che abbiamo descritto sopra, la capacità di un brand di differenziarsi sulla base dell’esperienza rappresenta un importante vantaggio competitivo. Ciò vale non solo per il settore dei servizi, che per natura sono basati sull’esperienza, ma l'opportunità esiste per ogni brand. Infatti, poiché ogni bene per essere consumato deve essere distribuito, dovunque c’è un punto vendita è possibile progettarne le caratteristiche tenendo conto della store gestalt per far scaturire un’esperienza di consumo che può essere la base per differenziarsi. Con l’affermarsi della Grande Distribuzione, alla brand loyalty si è sovrapposta ed intrecciata alla store loyalty e molte logiche sono cambiate. La natura del self-service ha portato ad un nuovo tipo di concorrenza, la logica degli scaffali e l’azione sul punto vendita. Al marketing dei brand “industriali” si sovrappone quello dei distributori, il cui cuore sono le loyalty card e lo sviluppo di marche commerciali. La modernizzazione del commercio che ha attraversato l’Italia a seguito della riforma Bersani del 1996 ben rappresenta l’ordine del cambiamento. Se allo scenario così delineato della distribuzione si aggiunge la proliferazione dei canali e delle iniziative di comunicazione, appare evidente la complessità di sviluppare un’esperienza unitaria legata al brand. Ecco quindi la diffusione dei flaghship stores come emblema dell’esperienza capace di contribuire all'immagine di marca con associazioni mentali uniche e positive. Il succo è che gli aspetti legati all’esperienza assumono un’importanza crescente per ogni tipo di brand. Le motivazioni sono diverse. Innanzi tutto, hanno un forte impatto sulla customer satisfaction. Inoltre, in quanto difficilmente riproducibili, possono essere alla base di un vantaggio competitivo sostenibile che differenzia il brand rispetto ai concorrenti. Ovviamente, il discorso non vale soltanto per le imprese profit, ma anche per gli altri due pilastri del sistema: il settore pubblico e il no profit. La logica di marca e dell'esperienza potrebbero contribuire al miglioramento del rapporto tra cittadini e PA ed alla creazione di legami emotivi ancora più forti tra le no profit ed i loro pubblici.

Tuesday, September 15, 2009

VOW / 9

Come funzionano i social media?

Monday, September 14, 2009

Il ruolo delle istituzioni pubbliche nella CSR

Le istituzioni pubbliche per loro natura sono stakeholders sensibili ai temi cari alla CSR: progresso sociale, sostenibilità ambientale, promozione dei diritti individuali. Resta da capire quale ruolo possano ricoprire in una dinamica che, pur essendo sociale, riguarda prevalentemente le pratiche aziendali. Dunque all'ente pubblico resta la possibilità di giocare un ruolo promotore, al pari e in combinazione con le iniziative delle ONG, verso il mondo privato.
Un primo approccio può essere quello di porre particolare enfasi sul legame tra successo aziendale e adozione delle pratiche di CSR. Lavorare per ribaltare la concezione diffusa secondo la quale l'implementazione di una strategia di responsabilità sociale sia unicamente un sunk cost da sostenere una tantum per dare una lavata alla propria immagine, al pari di altre iniziative filantropiche. Porre invece l'accento sul carattere competitivo della CSR, da considerare come un investimento e non come un costo. Un lavoro dello stesso tipo è stato portato avanti in passato riguardo al total quality management, attualmente presente in maniera rilevante nel mondo delle imprese, se pur in maniera critica e senza la pretesa di essere poi così total.
Se invece consideriamo le imprese come soggetti che, per la natura stessa della loro attività e degli obiettivi che perseguono, si comportano in maniera socialmente irresponsabile, considerazione non ideologica ma argomentata a fondo da studiosi come Gallino e Mitchell, allora l'approccio pubblico non potrà che seguire direzioni differenti. In quest'ottica la moral suasion non basterà, servirà invece il pubblico nella sua veste di regolatore vincolante. L'obiettivo non potrà che essere quello di costruire un frame istituzionale condiviso a livello internazionale, in modo da evitare che le imprese operanti in contesti più virtuosi siano penalizzate nella competizione globale.
Su questo fronte negli ultimi quarant'anni sono state firmate numerose convenzioni da parte di agenzie che fanno riferimento all'ONU (es. ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro). Nonostante lo sforzo considerevole i progressi in tale verso sono lenti e parziali, condizionati dal carattere non strettamente vincolante delle decisioni prese in quelle sedi. Il risultato frequente è quello di gruppi multinazionali che fanno scuola di best practice nelle sedi occidentali, salvo poi praticare il dumping sociale nel sud del mondo dove ha luogo la stragrande maggioranza della produzione.
Come fare dunque? Pur riconoscendo le lacune di una visione della CSR unicamente autoregolamentativa e volontaristica è altrettanto vero che un approccio regolativo mostra altrettanta debolezza nell'incapacità crescente degli Stati nazionali di incidere giuridicamente in un mondo globalizzato dove a farla da padrone sembrano essere i soggetti economici privati, in parallelo con un gap di regole a livello internazionale.
Nonostante ciò il pubblico gode di risorse ingenti rispetto alla più potente delle ONG ed è bene che continui a favorire operazioni di informazione e di moral suasion verso cittadini/consumatori e imprese. Non solo, sarebbe doveroso utilizzare con maggiore decisione il potere (dis)incentivante tramite la leva fiscale, sussidi e sanzioni in modo da favorire la diffusione delle pratiche di CSR. Quando è stato fatto i risultati sono arrivati, ci ritorneremo con casi ed esperienze concrete.

Saturday, September 12, 2009

Le conseguenze economiche della rete

Lo scenario che viviamo oggi è definito da molti società dell’informazione. Nonostante la definizione sia apparentemente monolitica, i suoi tratti principali sono in relazione ossimorica tra loro. La presenza diffusa dell’information e communication technology, infatti porta da un lato ad un sovraccarico (overload) informativo, dall’altro a nuove forme di emarginazione sociale. Contraddizione che si riscontra anche nella società dell’abbondanza, che in realtà nasconde fasce di haves e have-nots per i quali la concentrazione della ricchezza può essere misurata dall’indice di Gini. Qua potremmo distinguere tra i webbed e webbed-not. Per i primi il problema è dato, è il caso di dirlo, dall’imbarazzo della scelta. L’informazione è a portata di mano, non è più una risorsa scarsa per se. Ciò che scarseggia veramente è l’informazione rilevante (interessante, importante) per ciascuno. C’è troppa informazione inutile disponibile agli agenti economici per le loro decisioni, troppo rumore di fondo, troppa fuffa. Il web è il database più grande del mondo, ma è esperienza molto comune quella di non trovare ciò che si cerca. Questa è la ragione del successo degli “infomediari”: intermediari di informazione. Sono imprese che selezionano l’informazione rilevante e la restituiscono in maniera user-friendly. Sono Google, Bling, Yahoo! & company. L’information overload ha implicazioni per l’offerta e per la domanda. Per le aziende è infatti da una parte è complesso e costoso raccogliere informazione rilevante per prendere decisioni, dall’altra è sempre più difficile ottenere gli effetti comunicativi desiderati. L’advertising tradizionale cerca boccate di ossigeno, ma è sempre più difficile superare il rumore di fondo e raggiungere le persone. Dal punto di vista della domanda, invece, l’attenzione si fa selettiva. Il costo della ricerca di informazione in termini di tempo e soldi è minore sul web, la comparazione tra prodotti e prezzi è più semplice e di solito la rosa di alternative disponibili è più ampia. Queste, le conseguenze per l’economia dell’informazione dei webbed. All’altro estremo del filo (un doppino telefonico, se ci arriva), stanno i webbed-not. L’introduzione di una tecnologia così rivoluzionaria come internet ha effettivamente creato una nuova forma di emarginazione sociale. Le persone che non hanno accesso alla tecnologia di rete non restano coinvolte nel resto della società. La differenza tra i due gruppi è il digital divide. Le barriere che separano dall’accesso alla tecnologia sono di due tipi: fisiche e alfabetiche. Le barriere fisiche, cioè la mancanza di hardware, possono essere di natura geografica o monetaria. Alcune zone più o meno remote, infatti, non sono coperte dalla rete. Le persone che vivono in quelle aree e le attività economiche che vi si sviluppano sono isolate. Le tecnologie senza fili (Wi-max e wi-fi) potrebbero risolvere il problema in modo più efficiente rispetto al cablaggio di tutte le aree. Molte aree rurali (viene in mente l’Africa), ad esempio, hanno subito un salto tecnologico passando direttamente alla telefoni cellulare senza lo step del cablaggio. Le barriere monetarie sono invece legate alla povertà diffusa, che può manifestarsi anche in aree urbane. Le barriere di tipo alfabetico, invece, corrispondono ad una mancanza di conoscenza. La rete raggiunge le persone, ma queste non sanno utilizzare il computer o navigare in rete. È una nuova e più subdola forma di analfabetismo. Il primo tipo di barriere è relativamente più semplice da risolvere, con l’aiuto della volontà politica e di sussidi ed investimenti pubblici. Il secondo tipo, poiché riguarda l’istruzione delle persone, è da considerarsi un problema a lungo termine e a più lenta risoluzione. Cosa provoca concretamente il digital divide? I webbed-not non sono in grado di mantenere un certo tipo di relazione sociale mediata, non sono coinvolti nello sviluppo del loro Paese, faticano a trovare un impiego e nei periodi di crisi sono i più colpiti, non sono in grado di migliorare la propria condizione socio-economica e sono quindi potenziali migranti. Queste brevi considerazioni aprono un scorcio magari un po’ diverso, mettendo in luce la necessità di una responsabilità sociale degli operatori di servizi di rete e dei governi insieme a cui è richiesto di affrontare le sfide della società globale in maniera sistemica, anche garantendo l’universalità di quello che sembra essere un nuovo bisogno fondamentale.

Thursday, September 10, 2009

MTV Sticky: la youth culture è servita

Viacom Brand Solutions International ha lanciato MTV Sticky. Il payoff parla chiaro: "youth culture, trends & insight". Il sito si propone come il nuovo punto di riferimento in rete per rimanere sempre aggiornati sulla cultura degli young adults, il target prediletto di MTV, brand garante dell'operazione. L'era in cui custodire gelosamente le informazioni sulle tendenze scovate nel mondo, sperando di poter arrivare prima dei concorrenti a soddisfarle, è finita da un pezzo e Viacom ha capito il gioco. Se vuoi raggiungere la massa critica e far esplodere davvero una nuova idea, devi iniziare a diffonderla viralmente. MTV Sitcky si propone quindi anche come una piattaforma di consumer insight per altri brand che si rivolgono alla youth culture.

Wednesday, September 9, 2009

12 settembre 2009 - Plasticbag free day

Slittata di un anno al 2011 con il decreto "milleproroghe", l'eliminazione dei sacchetti di plastica non biodegradabile che era stata recepita da una direttiva europea, viene di fatto anticipata dalle iniziative dei Comuni e delle associazioni ambientaliste. Torino li ha già eliminati. Il 12 settembre invece è stata dichiarata la Giornata internazionale "contro" le borse di plastica. Per approfondire, clicca qui.

Tuesday, September 8, 2009

VOW / 8 - Moltitudine inarrestabile

Il video di presentazione del meta-movimento di Pawl Hawken. Per approfondire: il libro e il sito "Moltitudine Inarrestabile" e un'occhiata al social network Wise Earth, che unisce "people, nonprofits and businesses working toward a just and sustainable world".

Monday, September 7, 2009

Il ruolo delle ONG nella CSR

Il ruolo delle organizzazioni non governative si è rafforzato negli ultimi trent'anni, sia su scala nazionale che internazionale. Questi soggetti rientrano tra gli stakeholders secondari con cui hanno a che fare le imprese, un gruppo di cui fanno parte soggetti che nell'arena sociale e politica influenzano e (de)legittimano le imprese, senza avere in essere un contratto formale con esse. La possibilità di azione delle ONG verso le imprese multinazionali, in una partita di lobbying che le vede partire nettamente sfavorite dal punto di vista delle informazioni e delle risorse economiche a loro disposizione, dipendono essenzialmente dalla loro capacità di triangolare e mobilitare affianco a sé altri stakeholders, in primis governi nazionali e consumatori.
Per quanto riguarda i governi battendo i pugni sul tavolo per una regolazione pubblica più stringente su tematiche inerenti ad esempio l'inquinamento e i diritti umani, incentivando sussidi pubblici a vantaggio delle imprese che adottano pratiche di CSR e punendo invece quelle che producono maggiori esternalità negative. Questo approccio è però fortemente limitato nella sua efficacia dal declino del ruolo degli Stati-nazione nella globalizzazione, in assenza tra l'altro di una regolamentazione internazionale in ambito di lavoro, ambiente e diritti umani. La regolamentazione e i diritti in realtà ci sono ma non hanno carattere impositivo e vincolante in tutto il mondo e questo permette alle imprese di dirottare la produzione in contesti non tutelati. Dunque l'influenza delle ONG è ben diversa a seconda del contesto nazionale e le loro richieste vengono accolte in misura maggiore in Paesi dove sono già vigenti norme sociali e sull'ambiente al di sopra della media internazionale.
Sul fronte dei consumatori l'azione delle ONG si concretizza in campagne volte ad influenzare l'opinione pubblica in modo da danneggiare la brand image della multinazionale di turno fino ad azioni globali di boicottaggio, agevolate nella loro diffusione virale tramite il tam tam di informazioni sul web. Questo approccio parte dall'assunto secondo il quale i consumatori preferiranno acquistare beni prodotti da imprese che rispettano determinati standard sociali e ambientali. In realtà le cose stanno solo in parte così: i social responsible consumers costituiscono un bacino in aumento ma ancora non così ampio come lo si tende oggi ad enfatizzare e descrivere. Inoltre anche tra gli acquirenti sensibili e coscienziosi permane un problema di informazioni, solo in parte colmato dai nuovi media. La memoria tende ad essere breve, gli acquisti sono più influenzati dal prezzo o da componenti emozionali e solo i grandi scandali tendono a produrre cambiamenti effettivi con effetti duraturi nel tempo. Infine, anche quando azioni di questo tipo ottengono gli effetti desiderati, i bersagli rimangono i grandi brand globali mentre imprese minori o operanti solo nel B2B sono esposte in misura irrilevante ai feedback negativi di ONG e consumatori.
Mettere in evidenza i limiti nell'azione delle ONG non significa però delegittimare il loro ruolo e gli sforzi che ripongono verso l'agenda politica e le scelte di consumo delle persone. Tutto questo va bene, deve continuare ma occorre anche battere nuove strade.
Guardando ad esempio agli shareholders, generalmente considerati dalla parte del nemico in quanto interessati unicamente alle performance finanziarie della società di cui detengono delle quote. Eppure il successo crescente degli ethic funds negli ultimi anni dovrebbe servire ad andare oltre una lettura miope e semplificatoria. Questi fondi d'investimento garantiscono ritorni pari o superiori a quelli tradizionali e includono al loro interno società che rispettano una serie di principi etici, sociali e ambientali. In questo caso le ONG possono giocare ruoli a livelli differenti: contribuire alla valutazione delle performance di CSR, utilizzare il loro carisma per coinvolgere i capitali degli investitori istituzionali, creare esse stesse dei nuovi fondi. Lo spazio come dicevamo, c'è.

Friday, September 4, 2009

Il web e la funzione liminale della comunicazione pubblica

In una società in rapido mutamento la comunicazione di pubblica utilità diventa uno dei fattori fondamentali alla base di un nuovo patto di cittadinanza. In ogni divisione della pubblica amministrazione, le relazioni esterne dovrebbero essere concepite ed organizzate come una funzione strategica e professionale (Rolando). Non è strategica quella funzione il cui ruolo è semplicemente di “confezionare” l’informazione pubblica e politica. Queste sono le funzioni di un’agenzia di comunicazione, o meglio del press agentry model of PR di Grunig. La comunicazione procede dall’alto al basso a una via. Una funzione strategica, al contrario, è capace di contribuire al più ampio processo gestionale, fornendo ai decision-makers informazioni rilevanti, know-how professionale e tecniche, tra cui elementi di marketing e polling (sondaggio dell’opinione pubblica). La comunicazione pubblica costituisce le antenne della pubblica amministrazione sull’ambiente esterno, sui bisogni e desideri della società, ma ha anche una funzione di comunicazione organizzativa come definita da Invernizzi. La condizione per una comunicazione pubblica professionale è la definizione dell’identità e della mission dell’organismo pubblico, il blueprint dei servizi forniti, l’organigramma e le politiche di impiego, carriera ed incentivi. Questi ultimi in particolare costituiscono il DNA per favorire i cambiamenti organizzativi e l’innovazione. L’implementazione di un flusso di comunicazione bidirezionale per le relazioni esterne, infatti, implica un flusso parallelo che scorre internamente. Implica un’azione di marketing interno, poiché gli impiegati della pubblica amministrazione sono i primi destinatari ed i soggetti centrali della sfida del cambiamento, del miglioramento dell’efficienza e della qualità del servizio, mantenendone l’universalità. Se dal punto di vista normativo le indicazioni sono chiari, il rapporto che molti cittadini sentono di avere nei confronti della PA, resta comunque basato su un’esperienza molto diversa, pur con punte di eccellenza che, bisogna dirlo, non ricevono la dovuta attenzione. Alla luce di ciò, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione costituiscono una enorme opportunità per le organizzazioni pubbliche. Prima di tutto, verso l’esterno, la possibilità di un mezzo di comunicazione interattivo (digital divide permettendo, dato che la PA deve comunicare con tutti i cittadini, anche chi non sa utilizzare o non può permettersi un pc connesso a internet). Insomma, basta siti vetrina e basta aspettare un giorno per ricevere risposta ad una e-mail! Ma questo è solo l’inizio. Vuol dire capire le potenzialità della rete solo a metà. Infatti, seguendo il trend che ha caratterizzato l’e-commerce, bisogna sviluppare piattaforme basate sulla rete per transazioni ed erogazione di servizi online. È questa l’occasione per creare forme di e-government che migliorino la qualità, l’efficienza e la velocità dei servizi forniti dal settore pubblico alle persone ed alle imprese. Il ruolo liminale (di confine) della comunicazione pubblica come interfaccia tra l’interno e l’sterno delle organizzazioni, qui emerge di nuovo. L’erogazione di servizi internet-based, infatti, va di pari passo con la costruzione di supporti informatici tipo databases e datawarehouses che possono costituire la base per sistemi di knowledge management da utilizzare sia per il back office e per il front office. Le condizioni organizzative che favoriscono il successo di soluzioni integrate di e-government sono un orientamento alla customer satisfaction e al servizio, un’organizzazione flessibile per processi o attorno a progetti, l’affiancamento continuo del cambiamento con piani di change management gestite dal team di comunicazione. Infine, sempre guardando all’esempio aziendale, l’e-procuremement costituisce un’altra opportunità poco sfruttata dalla PA.

Wednesday, September 2, 2009

Voglia di emozioni

Immaginate di leggere ogni giorno i diari di milioni di persone e di scoprire che cosa dicono, ma soprattutto che cosa provano, le emozioni, i sentimenti, ogni sfumatura di sensazione... Sembra impossibile? No, se i diari sono dei blog e se state usando We Feel Fine. Questo progetto affascinante raccoglie dati sulle emozioni di chi è online, le frasi che usiamo per esprimerle e le fotografie per rappresentarle. Insomma è possibile "tastare il polso" della rete in tempo reale.

Tuesday, September 1, 2009

VOW / 7

Cosa c'è di più intangibile del software? Se poi è open, ancora meglio! Coderush racconta di come Mozilla si è trasformato.

Monday, August 31, 2009

Fiducia e business: Ebay

I rapporti che intercorrono tra gli stakeholders occupano una posizione importante all'interno degli studi inerenti alla corporate social responsibility, tanto da poter parlare di stakeholder responsibility. I cardini su cui si fonda la stakeholder responsibility sono: obiettivi e valori condivisi, fiducia e integrità.
Un modo efficace per dare sostanza a questi tre concetti e alla loro elevata interdipendenza è ragionare sul successo di Ebay. Una miriade di venditori, molti privati senza una sede, una partita iva, nulla di tangibile. Annunci improvvisati e grafica abbozzata contribuiscono a generare una sensazione di precarietà e instabilità che farebbe rifuggere il compratore più esperto da qualsiasi sito di e-commerce. Eppure parliamo di uno dei top brands della new economy, cresciuto con il boom e resistito allo sboom.
Dove sta il trucco? Aldilà di considerazioni legate ad esempio al meccanismo ludico insito nell'asta, il principale baluardo su cui si è sviluppato ed è tuttora sorretto quel business sta proprio nella implementazione radicale del paradigma degli stakeholders descritto sopra. Ebay ha fatto di valori come rispetto, fiducia, apertura, autonomia e responsabilizzazione qualcosa di più di un codice etico interno, ne ha fatto la ragione stessa del suo business. Lo spazio per i feedback esemplifica tutto ciò, è il meccanismo chiave attraverso cui gli stakeholders di Ebay (venditori e compratori) commentano le loro esperienze di acquisto/vendita. Viene così a crearsi per ciascun utente un profilo di feedback e di affidabilità, il frutto di un'attività cooperativa tra gli stakeholders che rafforza ulteriormente il senso di condivisione e di reciproca responsabilità nella relazione.
Questa pratica non solo è indissolubilmente legata all'esistenza stessa di una piazza virtuale come Ebay ma da origine ad un circolo virtuoso che permette un continuo rafforzamento della fiducia. Un ingrediente fondamentale nelle relazioni, il venir meno della fiducia con comportamenti opportunistici da parte degli stakeholders, come l'abuso da parte dei clienti del servizio di reso dei prodotti acquistati o lo stare ore e ore su internet a consultare la propria pagina Facebook da parte dei dipendenti, comporta non solo l'erosione del rapporto ma anche la necessità di aumentare il monitoraggio con controlli più restrittivi, dunque maggiori costi.

Friday, August 28, 2009

La out-of-home tv da oriente a occidente

Era il 2002 quando Jason Jiang si ritrovò a guardare un poster appiccicato alla porta dell’ascensore nella calda estate di Shanghai. Il giovane pubblicitario aveva capito che ci sono situazioni in cui l’attenzione delle persone non è bombardata dalla miriade di stimoli che vengono dalla televisione e basta una semplice immagine per attirare l’attenzione. Magari è stata la bella attrice Shu Qi, fotografata nel poster, ad ispirarlo, fatto sta che Jiang ha deciso di trasformare la sua intuizione in un’idea imprenditoriale. E lo ha fatto con estrema rapidità e successo. Il modello di business di Focus Media, basato sulla out-of-home tv è apparso in Cina nel 2003. Due anni più tardi era chiaro che i media tradizionali (tv e stampa) non erano più un grado da soli di raggiungere in maniera efficace ed efficiente gli urban consumers. In questo senso, il modello di Focus Media è basato sui new media, intesi in senso lato come mezzi di comunicazione tipici dei mercati post-pubblicitari [Brognara – Del Curto, 2009]. Anche in Cina, infatti, si assiste ad un declino della centralità dell’advertising tradizionale verso forme non convenzionali in grado di coprire meglio il target. Ciò è il risultato di un cambiamento nel comportamento dei consumatori, in particolare dei segmenti demografici urbani con un reddito superiore alla media. L’abbondanza di informazione e di offerta di intrattenimento rende la loro attenzione selettiva sempre più difficile da attirare con i media tradizionali. La out-of-home tv rappresenta il concetto di remediation [Bolter – Grusin, 1999] che caratterizza i new media: il linguaggio della tv viene ri-mediato in contesti e location non convenzionali. Il contatto con il consumatore avviene in concomitanza con lo svolgersi delle attività che ne definiscono lo stile di vita: professione, posti frequentati, attività ricreative, esperienze di consumo. In Cina capita di trovare uno schermo fuori dalla finestra dell’ufficio, in metropolitana, in taxi e in ascensore, ma anche al golf club, dall’estetista e nelle sale d’attesa delle cliniche. Così, le città si trasformano. I media outdoor contribuiscono massicciamente a quel fenomeno di vetrinizzazione del sociale descritto da Codeluppi [2007], trasformando gli edifici e gli spazi urbani in enormi vetrine. Questi trend riguardano le città occidentali come quelle orientali. Comunque, il grado si sviluppo economico in Cina resta molto disomogeneo, con l’area costiera ultra-moderna e l’entroterra agricolo. Inoltre, il livello degli stipendi e le abitudini mediali variano di città in città, rendendo quindi necessari ulteriori adattamenti alla pianificazione media che, se intende coprire anche le zone rurali dovrà includere anche forme di folk media.

Tuesday, August 25, 2009

VOW / 6

Tutto quello che avete sempre voluto sapere su Wikipedia e non avete mai osato chiedere.

Sunday, August 23, 2009

L'agenzia viaggi del turismo consapevole

Si chiama Go Philanthropic ed è un'agenzia viaggi di New York. Ciò che la distingue dal mare di offerta turistica organizzata e DIY che si incontra navigando in rete è il taglio delle destinazioni e dei servizi. Tutto rigorosamente all'insegna del turismo eco-compatibile, responsabile e consapevole. Leggermente caro, ma questa volta i prezzi includono forme di "compensazione" delle esternalità negative prodotte. Speriamo che questo approccio diventi la regola e non un lusso per chi se lo può permettere.

Tuesday, August 18, 2009

VOW / 5

Il promo di prensentazione del libro di Charles Leadbeater, "We Think". Lasciatevi trasportare alla scoperta delle potenzialità degli ultimi sviluppi della rete.

Friday, August 14, 2009

Le eco-chic bag fanno tendenza

Dal regalo della moglie del sindaco di Roma Alemanno, Isabella Rauti, per le first ladies dei G8 alle iniziative di CSR di Vodafone. La borsa, accessorio per eccellenza, diventa eco-chic. Michelle Obama e le altre, infatti, sono tornate a casa con una Message Bag di Carmina Campus, il brand di Ilaria Venturini Fendi.



















(immagine tratta da www.carminacampus.com)

Vodafone propone invece delle Eco Bag realizzate riciclando le affissioni del gestore di telefonia per finanziare il progetto My Future, che raccoglie molte altre iniziative di CSR.


















(immagine tratta da www.myfuture.vodafone.it)

Tuesday, August 11, 2009

VOW / 4

La nuova frontiera dell'innovazione: il crowdsourcing.

Monday, August 10, 2009

Country Brand Index

Chi si interessa di marchio d'area non può prescindere dalla dimensione nazionale. I country brand, come espressione della promozione del territorio nazionale competono nello scenario globale del turismo. Il più autorevole rapporto sui country brand e la classifica che ne risulta sono gestiti dal 2005 dall'agenzia Future Brand (www.futurebrand.com) e sono consultabili al sito www.countrybrandindex.com/.

Saturday, August 8, 2009

A Londra apre un pop-up store

Il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha inaugurato insieme al designer e fondatore del brand Red or Dead, Wayne Hemingway, un innovativo pop-up shop, KiosKiosK. Lo spazio di retail posizionato al centro di Londra, verrà fornito gratuitamente ai giovani creativi che vogliono affacciarsi sul mercato per i prossimi due mesi. Ottima idea per abbattere le barriere all'ingresso e stimolare il buzz. Tutta la storia su www.kioskiosk.co.uk/.

Wednesday, August 5, 2009

Il manager interculturale / 2

PARTE SECONDA.
Abbiamo esaminato da dove originano e come si caratterizzano le differenze culturali. Ora vediamone l’impatto sull’ambiente interno delle organizzazioni ed in particolare sul team work. L’etimo della parola team in inglese e cinese rispecchia le differenze culturali tra la visione occidentale e quella orientale. L’inglese team viene fatto risalire al latino ducere ed è quindi collegato all’idea di leadership. Il cinese 团队 è composto da 团 (tuán), che significa “gruppo, insieme” e da 队 (duì), “squadra”, che è costituito a sua volta dai caratteri 耳 (ěr), l’orecchio, e 人(rén), “persona”. L’idea qui è ascoltare le persone. Come conciliare visioni così diverse (su cui inoltre si innestano le differenze individuali) quando si lavora nella stessa équipe? Rielaborando la nostra esperienza in contesti internazionali, vi proponiamo il seguente modello.
Innanzi tutto è necessario che il team, affinché si sviluppi un senso di comunanza di obiettivi, raggiunga una massa critica di lavoro di gruppo. Questo permette che il team attraversi tutte le fasi del processo di formazione descritto da Tuckman [1965]: forming, storming, norming, performing. Si sviluppa inoltre un grado sufficiente di conoscenza reciproca che si cristallizza in delle teory of minds, cioè delle aspettative sul comportamento altrui. Col tempo cresce il livello di coinvolgimento nel team, si sviluppano reti informali e le persone cominciano a sentirsi parte di un’unica entità sociale. Si passa quindi da una prospettiva transazionale del lavoro insieme ad una prospettiva relazionale.
In questo processo gioca un ruolo fondamentale la definizione di obiettivi comuni a tutta la squadra, in collaborazione tra il management e i membri del team. Anche il numero dei componenti e la natura poliarchica che solitamente caratterizza i team influisce sull’esito del lavoro di gruppo. Ci preme sottolineare la complessità della comunicazione organizzativa, sia in termini puramente meccanici che in relazione ai contenuti. Il numero di relazioni comunicative cresce esponenzialmente ed in un team di n membri è uguale a n*(n-1)/2!. Inoltre la diversità influisce sui contenuti della comunicazione, tra non detto e lost in translations. L’abilità di relativizzare il proprio punto di vista (ability to decentre) diventa quindi una competenza chiave in un team multiculturale. Per evitare che ogni componente si chiuda nel proprio umwelt (mondo percepito) è necessario creare spazi di condivisione del sapere. Il concetto giapponese di ba descritto da Nonaka e Konno [1998] è il locus condiviso fisico e virtuale dove la conoscenza viene coltivata, attraverso la sua continua circolazione da implicita ad esplicita. Trascendere la prospettiva limitata del singolo è condizione necessaria per favorire l’innovazione. Considerati tutti questi fattori è quindi possibile ridurre la conflittualità, creare sinergie e addirittura invertire il percorso dell’entropia, specializzando ed affinando le risorse intangibili di ciascuno, che rimangono di scarso valore se non vengono condivise.

Tuesday, August 4, 2009

VOW / 3

Un altro cult: introduzione al web 2.0.

Monday, August 3, 2009

Il manager interculturale / 1

La complessità ambientale che risulta dai flussi della globalizzazione di persone, idee, prodotti e servizi avvolge le organizzazioni e ne forgia l’ambiente interno. In quanto sistemi aperti, infatti, queste sono giocoforza in un rapporto osmotico con l’ambiente esterno. Anzi, è proprio la capacità di essere permeabili ed avere delle antenne che sondano il contesto di azione a fare la differenza per le organizzazioni di successo. Anche il tentativo, pur possibile nel lungo periodo, di influenzare l’ambiente esterno non può essere affrontato da quelle imprese che non abbracciano la complessità postmoderna. Ecco, quindi, che in termini di persone le organizzazioni si articolano sempre più spesso in team di natura multiculturale. La diversità nelle organizzazioni, ormai universalmente riconosciuta come un arricchimento, rappresenta se opportunamente gestita non soltanto una strategic necessity, ma un vero e proprio vantaggio competitivo che affonda le proprie radici nelle risorse intangibili. Ma come rendere eccellente un team multiculturale? Affrontiamo l’argomento in una serie di post successivi.

PARTE PRIMA: L’ORIGINE SOCIALE DELLA MENTE E LA DIVERSITA’ CULTURALE.
Innanzi tutto bisogna comprendere le origini della diversità. Lo psicologo americano Richard Nisbett ha tracciato la strada per disegnare una mappa della Geografia del pensiero (The geography of thought, 2004). Questo approccio alle teor ie dell’origine sociale della mente, riporta enculturation, apprendimento e socializzazione primaria al centro della scena. Muovendo dalle differenze tra Occidente ed Oriente nell’imprinting dato ai bambini, Nisbett ritrova queste differenze nei processi percettivi e comportamentali degli adulti. Ad esempio, i genitori asiatici puntano sull’apprendimento dei verbi e parlano ai bambini in termini sentimenti; quelli occidentali, invece, favoriscono il vocabolario legato ai sostantivi ed il riferimento ad oggetti. Così, le persone asiatiche risultano più propense a percepire e descrivere l’ambiente in termini di sostanze piuttosto che di forme; si concentrano più sullo sfondo e meno sulla figura; ricadono più difficilmente nell’Errore Fondamentale di Attribuzione, cioè tendono ad attribuire (correttamente) il comportamento alla situazione ed al contesto piuttosto che alle caratteristiche personali dell’agente. Tutto ciò si riscontra nel comportamento: in Occidente si esaltano l’indipendenza, la coerenza logica e gli outliers; in Oriente l’armonia del gruppo, la ragionevolezza, le relazioni tra membri della società. Il lavoro di Nisbett, sicuramente perfettibile, soprattutto nel considerare soltanto due macro-gruppi culturali (Westerners vs. Asians), apre però delle prospettive interessanti nelle relazioni tra culture differenti.













In relazione al rapporto con il contesto, Stuart Hall (1976) suddivide le società umane in high context e low context. Coerentemente con i risultati di Nisbett, le società asiatiche sono maggiormente consapevoli del contesto generale (la scena) delle azioni e dell’agire comunicativo. Ciò risulta in una maggiore quantità di non detto nelle conversazioni tra orientali, mentre in occidente è necessario esplicitare maggiormente alcuni elementi significanti affinché lo stesso significato possa essere compreso.
Andando oltre, Hofstede (1980) identifica cinque variabili per descrivere l’ambiente culturale: individualismo, distanza dal potere, mascolinità, tolleranza per l’incertezza, e orientamento di lungo periodo (o Confucian dynamism). Le culture asiatiche, radicate nel pensiero di Confucio, considerano sempre il contesto allargato e valutano le loro azioni in relazione all’armonia della società e ai rapporti con gli altri membri del gruppo. Inoltre, sono più disponibili a fare sacrifici nel presente nell’attesa di ricompense future. Un’antica storia cinese racconta di un vecchio contadino e del suo cavallo che scappa. Ai vicini che vanno a commiserarsi con lui, questi risponde: “Chi lo sa se ciò è bene o è male?”. E infatti, dopo qualche giorno il cavallo ritorna portando con sé un bel puledro. I vicini di nuovo vanno da lui per congratularsi, ma il vecchio risponde: “Chi lo sa se ciò è bene o è male?”. La settimana successiva, suo figlio, tentando di addomesticare il giovane cavallo, cade e si rompe una gamba. Ecco che i suoi amici vanno ancora dal contadino per condividerne il dolore, ma lui li respinge dicendo: “Chi lo sa se ciò è bene o è male?”. Infatti, durante la convalescenza del giovane, scoppia una feroce guerra e l’esercito viene al villaggio per reclutare tutti i giovani in grado di combattere. Il figlio del vecchio contadino viene risparmiato. La storia potrebbe andare avanti…
Nel prossimo post vedremo come queste differenze culturali influenzano il comportamento delle persone nelle organizzazioni ed il team work e come gestire la diversità per rendere eccellente l’organizzazione.

Sunday, August 2, 2009

Verso il marchio d'area

Fin dagli albori del commercio si registra la volontà di identificare con un grafica rudimentale o con dei colori il proprio prodotto in modo da qualificarlo e differenziarlo rispetto ai concorrenti, tramite un marchio, termine giuridico che riporta alla natura industriale e alla funzione commerciale originaria. Oggi invece assistiamo all'affermazione della marca o meglio delle marche che, nello spazio sociale postmoderno, sono investite del ruolo di crocevia strategico rispetto ai tre motori dell'attuale scenario: economia, consumo e comunicazione. Uno scenario caratterizzato dalla tendenza alla dematerializzazione del consumo, secondo la quale sono in costante aumento le pratiche di consumo nelle quali la parte fisica e materiale è sempre più trascurabile, sostituita dal consumo di idee, emozioni, immaginari e racconti. La logica di marca si è estesa a crescenti ambiti della discorsività sociale, l'attenzione al brand ha trovato spazio nella sfera politica, nelle industrie culturali e nel mondo dello sport. E' necessario partire dal grado di flessibilità ed estendibilità assunta dal brand per comprendere le peculiarità del marchio d'area, ovvero la definizione di un'area territoriale nella quale realizzare una serie di servizi coordinati e complementari volti a far emergere e promuovere le potenzialità presenti. Da un lato funzionando come strumento di posizionamento sul mercato e dall'altro permettendo una maggiore canalizzazione degli interventi sul territorio, rafforzando infine le sinergie tra i diversi stakeholders. Tutto questo favorisce la creazione di contenitori contraddistinti da un equilibrio apparentemente ossimorico tra diversificazione della proposta e coerenza forte a livello di immagine. E' ragionevole dunque pensare che ci sia spazio anche per micro brand legati ad un territorio come appunto il marchio d'area, con comuni e enti locali azionisti di maggioranza e impegnati in prima linea. Questi soggetti sono già tenuti a corrispondere alla fiducia dei cittadini venendo incontro alle loro aspettative sociali, costituendo un legame meno artificioso di quello che si sforzano ad instaurare quotidianamente le imprese multinazionali con i propri consumatori, nel migliore dei casi tramite strategie di ampio respiro legate alla corporate social responsibility.
Dunque gli enti pubblici, proprio per la loro mission, si prestano maggiormente a portare avanti un certo tipo di contratto con il proprio target attraverso una discorsivizzazione veicolabile attraverso la marca e le logiche che in essa risiedono. Se inoltre consideriamo che il contesto politico-sociale è uno degli elementi principali di cui tengono conto le corporation quando analizzano lo scenario nel quale collocare i loro brand, nel caso del marchio d'area ci troviamo di fronte ad una logica di marca portata avanti da soggetti che a loro volta sono influenzatori del contesto nel quale competono altri brand, permettendo ad esso di erigersi a meta-marca all'interno di un'area territoriale privilegiata. A giovarne è prima di tutto l'immagine del luogo, quella che Comboni definisce come il risultato di un processo mentale di semplificazione e sintesi dell'insieme delle credenze, delle informazioni più o meno mediate che il pubblico ha del territorio stesso, il prodotto di un pensiero figurato originato da aspetti tangibili ed altri capaci di andare al di là delle forme rappresentate. Queste forme tangibili possono essere ad esempio gli eventi, un asset fondamentale che ben si sposa con il potenziale innovativo della marca, capace di stimolare una serie di cambiamenti dal punto di visto organizzativo, nella sostanza del fare e nel comunicare. Elementi da tenere in debita considerazione da parte di tutti coloro che intendono sviluppare un marchio in relazione ad una community locale.

Thursday, July 30, 2009

Bowling alone?

Il tramonto delle grandi narrazioni politiche e religiose e l'avvento delle forze della globalizzazione portano ad interrogarsi sulle sorti della società, dei legami sociali e della cultura come collante sociale. Che la società di massa sia ormai tramontata è chiaro. La struttura sociale attualmente appare più come un mosaico di diverse esperienze e subculture dalla forma reticolare in cui sono i singoli a tirare i fili. La spinta tecnologica alla digitalizzazione genera un cambio di paradigma da un mondo dominato dalla scarsità da allocare in maniera efficiente ad un'abbondanza da filtrare in maniera efficace. Dalle hit alle nicchie, dalla testa alla "lunga coda" come dice Anderson. La postmodernità vuol dire anche frammentazione, proliferazione delle subculture, primato dell'individuo e liquidità delle relazioni sociali. In questa situazione, ci chiediamo, che cos'è che continua a tenerci assieme? Se poi si considera che, nel processo di negoziazione del senso che costituisce ogni atto comunicativo, l'unicum di ogni lettore-spettatore fornisce un loop positivo che rinforza la frammentazione, il rischio è addirittura che si finisca ad abbracciare tesi sul solipsismo e l'incomunicabilità di fondo. Il problema però riemerge quando si considera il ruolo che il broadcasting ha avuto nella formazione della coscienza collettiva: il rischio prospettato da alcuni è che con il passaggio al narrowcasting ed ai personal media si perdano legami sociali e la sfera pubblica collassi in un ammasso di agende private.
Questo scenario ci sembra "apocalittico", vediamo perché.
Prima obiezione: un nocciolo duro di conoscenza condivisa resterà sempre, se non altro dovuta al processo di inculturazione ad opera delle istituzioni sociali e, come dimostrano sempre più studi sull'infanzia e l'adolescenza, dal gruppo di pari. Su questa parte in comune si innestano poi un superstrato di origine subculturale ed una periferia di esperienza individuale. Hofstede parla di livelli di mental programming (il suo studio era per l'IBM), ma la struttura è simile alle rappresentazioni sociali di Moscovici.
L'osservazione della natura relazionale dell'agire umano, ci porta alla seconda obiezione: uomo e donna (la difficoltà di comunicazione tra sessi qua non c'entra!) restano fondamentalmente degli animali sociali. A cambiare non è la sostanza, ma la forma. Nascono cioè forme di socialità inedite, dal micro-locale al global networing basato sulla comunanza despazializzata di Thompson. Oggi come allora, infatti, l'aggregazione avviene attorno a spazi geografici e di significato (ideologici, culturali). Non più il cortile, sempre meno la piazza; ma il parco commerciale, il luoghi del consumo e del tempo libero (con l'impennata dei luoghi del wellness). I significati condivisi, invece, si caratterizzano per saperi tematici ed esperienze condivise a livello globale. Ad essere oggetto di negoziazione è il senso stesso della società, in prima linea l'idea di Stato-Nazione.
Le nuove tecnologie e la customizzazione di prodotti, servizi e messaggi, perciò, non dividono, ma uniscono. Il word of mouse è la natura della rete, il social networking è la trama del nuovo tessuto sociale. Ed è proprio la frammentazione delle esperienze che crea il bisogno di condividerle. L'errore da cui guardarsi è il considerare i social media come un sostituto delle relazioni personali. Ne sono in realtà un complemento. E, soprattutto, la socialità viene gestita in maniera diversa da ognuno di noi. Maven, Connectors e Salesman continueranno ad esistere e a diffondere le idee oltre il Tipping Point infettando il resto della società, ma lo faranno aiutati dalle potenzialità dei social media.
Moriremo di solitudine davanti a uno schermo? Non direi proprio. A parte i casi di psicopatologia come quello di Asai Eri nella Tokio After Dark di Murakami, il bisogno di comunicazione rimarrà sempre.

Wednesday, July 29, 2009

Ideas worth spreading

Ringrazio di cuore Lidia Lee per avermi passato il link al sito di TED, una non profit la cui mission è semplicemente "spreading ideas". Fantastica la raccolta di discorsi ed interventi "da pelle d'oca" in formato video. E allora: spread, baby spread! www.ted.com

Tuesday, July 28, 2009

VOW / 2

Rientro soft dopo la pausa estiva con un video che ci racconta come l'aumento della complessità, genera nuove sfide per il marketing e il branding.

Post-vacation blues

Finiti i nostri viaggi intorno al mondo, rieccoci in Italia e rieccoci online.
Se menti e cuori sono ancora in bermuda a succhiare mojito da una noce di cocco, la nostra corporeità (tangibilissima!) ci impone il rientro in campo.
Inizia la nuova stagione ricca di progetti, impegni ed idee. Questa settimana la redazione si incontrerà per programmare le prossime attività online ed offline. L'ordine del giorno è fitto e si prevede una serata lunga con una cena finalmente nostrana, vino e block notes alla mano... Vi faremo sapere!

Sunday, July 5, 2009

Blog: off

Causa viaggi e scorribande estive il blog non verrà aggiornato nella prossima settimana. Marcello è tornato in Cina, io invece andrò ad abbronzarmi in Grecia: feta, tofu, pita e quant'altro mi aspettano. Anche i più intangible vivono esperienze di sostanza. A presto.

Tuesday, June 30, 2009

Il futuro di Emule è verde

Pochi giorni fa la legge sull'energia voluta dal presidente Barack Obama ha ottenuto il si dalla maggioranza della camera dei rappresentanti ed ora passerà al giudizio del senato federale in modo da ottenere l'approvazione dell'intero congresso. Al centro la riduzione dei livelli di C02 tramite un meccanismo di cap and trade che fissa i tetti di emissione ma permette all'imprese l'acquisto e la vendita dei permessi di inquinamento. Per ora un passo importante da parte di un player centrale nella lotta al global warming, problema su cui l'amministrazione Bush ha sempre fatto orecchie da mercante. Meglio di niente, ma non si tratta del passo decisivo verso la energy revolution prospettata dal presidente USA in campagna elettorale. Il tempo di carbone, petrolio, gas naturale e uranio è arrivato al tramonto. Il fatto che questo tramonto durerà diversi decenni e che non c'è accordo unanime su quando scatterà l'ora X (2020? 2030? 2050? Non oltre!) non toglie che la politica a livello nazionale e internazionale ha il dovere di imporre il cambio di passo ora. Trent'anni non sono molti per imprimere e gestire una rivoluzione di questo tipo. I leader politici non sembrano invece avere il coraggio ne la fantasia per parlare di tutto ciò, fatte le recenti eccezioni di Obama e dei verdi francesi guidati da Daniel Cohn-Bendit. I risultati della corsa alla Casa Bianca e delle elezioni europee parlano da sé, mettere al centro il green è l'unica cosa da fare per salvare il pianeta e paga anche elettoralmente, quindi non si capisce dove tutti gli altri vivano, se sono vivi, e cosa stiano aspettando. Quattro problemi però rimarranno stabili e imporranno il corso delle cose: economia globale in recessione, instabilità politica internazionale, petrolio in rapido esaurimento, cambiamento climatico. Quattro macigni legati in maniera intrinseca alla dimensione hard della modernità politica ed economica. Nell'architettura il passaggio dalla modernità alla postmodernità viene fatto risalire simbolicamente alla distruzione del complesso Pruitt-Igoe di Saint Louis, costruito sul modello della macchina per abitare di Le Courbusier, avvenuta nel 1972. Dal punto di vista economico la transizione è avvenuta solamente in parte, la globalizzazione dei mercati e delle reti informatiche è sclerotizzata in sé stessa e rischia l'implosione proprio perché continua a poggiarsi e ad andare avanti su energie e risorse del passato. La rete viene incontro al green molto di più di quanto non abbia già fatto verso le economie: satelliti, wireless, reti open source sono tasselli di distruzione gerarchica del potere che in cambio offrono un sistema nervoso costruito sul web, il potere è distribuito. La concentrazione è roba da carbone e seconda rivoluzione industriale. L'energia nucleare è un abbaglio pericoloso che ha già fatto il suo tempo, è il tentativo di prorogare il modello della concentrazione, dell'energia delle elites che presuppone investimenti geopolitici e militari, capitali enormi e centralizzati, vittime umane in guerra a far da sfondo. La rivoluzione informatica sta invece convergendo con quella energetica, un'energia distribuita. E dove sta l'energia distribuita? Nel nostro giardino. Sole, vento, scarti agricoli, maree, calore sotto terra. Come raccogliere e distribuire tutto questo ben di dio ove fosse necessario? Con gli edifici. Con le aziende, con casa tua. Ciascun edificio è un potenziale nodo di una rete ampia e globale. L'idrogeno è il carrier universale che permetterà di immagazzinare l'energia raccolta e distribuirla. La stessa funzione (rivoluzione) del digitale applicato all'energia. Ognuno si crea la sua energia pulita poi idrogeno e contatori penseranno a gestirla lungo la rete dove questa è necessaria. Tutta questa roba esiste già, anche la nostra Enel ce l'ha. Per abbracciare questa rivoluzione non basta però diffondere i benefici dell'innovazione tecnologica in materia, siamo di fronte ad un cambiamento che parte dalle nostra mente, dal modo con cui ci rapportiamo agli altri nella biosfera sociale e politica. Per fortuna la rete ci ha preparato in questi anni al cambiamento, il modello orizzontale del peer to peer sarà quello della terza rivoluzione industriale e non potrà che partire dall'energia. Le parole d'ordine sono condivisione e distribuzione, share and distribute. Il grosso server centrale è un mito vecchio e defunto. Unicentrismo, unipolarismo, monismo sono concezioni barbare che riflettono modi di gestire il potere e affrontare la realtà che fanno a pugni con la complessità e la postmodernità. In inglese la parola power si riferisce allo stesso tempo a energia e potere. L'energia é potere, da sempre è così. La comunità europea nasce nel secondo dopoguerra con l'obiettivo di gestire questo tipo di potere, la Ceca e l'Euratom ponevano la gestione congiunta di carbone, acciaio e energia atomica come policy fondativa della nuova Europa unita. Oggi la stabilità dell'euro tiene in vita il mondo, l'Europa è l'economia principale ma soffre di un complesso di inferiorità perché non ha altrettante risorse hard da mettere in campo per dire la sua e fare la voce grossa come Cina e USA. Il punto è che non ha senso inseguire un treno in corsa su un binario morto, sarebbe meglio invece dare il là al cambio di paradigma. Alla terza rivoluzione industriale. Con il sole italiano, il vento irlandese, le biomasse polacche. Tutto questo si può fare oggi. Alla Pepsi hanno ristrutturato alcune delle loro fabbriche per creare energia attraverso scarti e sole. In Aragona, General Motors ha usato il tetto di un suo stabilimento Opel per creare la più grande stazione solare del mondo, rendendo autonoma la fabbrica e fornendo energia pulita a 47 mila case circostanti. Dieci anni di tempo per ripagare il tutto, dopodiché energia gratis per sempre, la domanda è: perché non ovunque? Ad Abu Dhabi verrà messo in piedi un edificio che ruota costantemente come un serpente, non hanno il senso del limite, alimentato al 90% dall'eolico e al 10% dal solare, l'architetto che l'ha ideato è italiano. Perché non in Italia?

Saturday, June 27, 2009

L'azzardo morale della società senza merito

Il modello sociale basato su obiettivi uguali per tutti è arrivato al capolinea. Si rivelato un clamoroso fallimento dal punto di vista politico, economico e sociale. Ma la questione è prima di tutto etica. Che una società giusta ed equa sia quella in cui tutti i cittadini sono uguali è un valore incontrovertibile. Ma garantire l’uguaglianza non significa imporre a tutti gli stessi obiettivi: questo è un giocare al ribasso. Significa invece essere liberi di definire il proprio sé in relazione alla società che cambia, crearsi un progetto di vita e avere l’accesso a tutti i mezzi disponibili per realizzarlo pienamente, secondo le proprie capacità. Definire un punto di arrivo uguale per tutti significa necessariamente porre un limite ai sogni ed alle reali possibilità di qualcuno e indicare al contempo un traguardo difficilmente raggiungibile per molti altri, creando così la necessità di un ingente flusso di risorse per sopperire ad una situazione artificiale che, in un conato autogiustificatorio, non raggiunge altro scopo che quello di alimentare la disuguaglianza e la pressione sociale. Questa via non è più praticabile né tanto meno sostenibile. Una società giusta ed equa è quella in cui tutti i cittadini hanno uguali condizioni di partenza, non di arrivo. Soltanto sostenendo, premiando ed incentivando il merito, si possono reperire le risorse per intervenire sul bisogno. L’alternativa è la morte del bene pubblico, l’assenza di aspirazioni e di incentivi a migliorare, l’attesa apatica, patetica e opportunistica di un minimo garantito. Il moral hazard, il fallimento di ogni forma di mercato e di società. La ragione di esistere dei soprusi e dell’immobilità sociale legata al censo e alla “robba”. Un individualismo arido e la triste idea che vivere allora significa avere. Tutto questo, non è giusto, non è democratico, non è bello. A ciò si deve preferire la società dell’essere. Essere felici. La felicità si raggiunge con l’autorealizzazione, con il compimento del proprio disegno di vita delle proprie aspirazioni.
La società postmoderna e globale impone nuove sfide sugli scenari della competizione internazione e ci presenta un cambiamento radicale nei rapporti tra cittadini e politica. L’affermazione dei valori dell’individuo passa attraverso meccanismi identitari inediti, come quelli del consumo e dei network relazionali personali e mediali. Per evitare derive solipsistiche bisogna intervenire strutturalmente sulla società introducendo la variabile merito. Un solido, trasparente e libero sistema di incentivi che sviluppi una concorrenza interna virtuosa, basata sulla conoscenza, sulle diverse tipologie di intelligenza, sulla creatività e sull’iniziativa. Il capitale più prezioso che si possa desiderare è quello costituito dalle risorse immateriali. Conoscenza e fiducia si perseguono sostenendo, premiando ed incentivando il merito. Solo così si potrà costruire un sistema di welfare sostenibile ed equo. Non un limbo da cui è impossibile o non conviene uscire, ma un affidabile tappeto elastico che rimbalza prontamente nel gioco chi è caduto, con un nuovo slancio; uno stato sociale che, ricco delle risorse stimolate dal merito, sostiene l’ineliminabile dinamica del bisogno in modo equo e non discriminatorio. Non sarebbe bello essere liberi di sognare, di costruire, di arrivare dove possiamo? Essere felici?

Tuesday, June 23, 2009

VOW - video of the week - ogni martedì su Intangible Economy

Intangible Economy presenta VOW - video of the week -
Ad integrazione dei nostri interventi, ogni martedì proporremo un filmato disponibile online. Ovviamente tutto in tema intangible.
Questa settimana, dato che abbiamo parlato di country brand, Italia Much More, campagna promossa da ENIT.

Friday, June 19, 2009

Penso digitale

I driver del consumo mediale si possono identificare in content-seeking e media-seeking. Queste due fondamentali dinamiche sono sempre presenti nelle scelte che le persone compiono quando fruiscono di contenuti di comunicazione. Financo nella sfera interpersonale, le motivazioni possono essere l’argomento o la persona con cui si comunica che spingono allo scambio comunicativo. I fattori che di volta in volta fanno pendere l’ago della bilancia verso l’una o verso l’altra delle componenti del valore mediale sono diversi. Oltre a misurare l’impatto sulla singola unità in un approccio micro, si possono chiaramente riconoscere dei trend a livello macro che si svolgono lungo la storia dei media.
La sterzata di paradigma si ha con l’avvento del CD rom: per la prima volta è possibile selezionare la singola traccia: con i dischi in vinile e con le audiocassette non era direttamente ed agilmente possibile. Anche il DVD cambia la fruizione del contenuto audiovisivo, permettendo di selezionare la singola scena, frammentando ulteriormente l’unità significativa del consumo. Questa caratteristica intrinseca nella tecnologia digitale di rendere il prodotto audiovisivo diventa un’unità autonoma e, grazie alla convergenza, fruibile su più supporti diversi, ha fornito una spinta all’offerta e alla domanda di librerie digitali immense.
Il ritorno della dimensione infantile dell’ascoltare la stessa storia “tecnicamente riprodotta” in modo identico ed on demand è facilitato dalle possibilità tecnologiche: la techne disponibile e la psiche si forgiano a vicenda.
Il prodotto audiovisivo in sé diventa quindi sempre più importante nella scelta delle persone, il che porta a due considerazioni. Innanzi tutto, cresce la richiesta di qualità, diversamente intesa, nell’offerta audiovisiva dei media; qualora questa non venga accolta, cala la channel loyalty e viene trovato sfogo nella ricerca altrove (ad esempio online). In secondo luogo, l’asse del potere si sposta dalla distribuzione verso la produzione. Le implicazioni sono molteplici. Prima di tutto, è necessaria una presa di coscienza che il de-bundling dei prodotti, le librerie e gli archivi possono accontentare i content-seeker che, come dimostra iTunes, sono anche disposti a pagare per il contenuto online. Secondo, i canali tradizionali devono trovare nuove modalità di fidelizzazione ad esempio assumendo online il ruolo di infomediari che selezionano contenuti dal mare di materiale disponibile e permettendo di personalizzare i palinsesti, il tutto suggellato da un forte brand, Infine, si aprono enormi opportunità di collaborazione tra i produttori audiovisivi ed i brand manager.